Recensione dell’introduzione di Sayyid Jalālu-d-Dīn Āśtiyānī al commento di Qayşarī ai Fuşūş-l-Ĥīkam di Ibn Arabī, di Ruhollah Roberto Arcadi.
Nell’accingerci a recensire questa preziosa introduzione di Sayyid Āštiyānī1, sarà opportuno rimarcare, com’è che non ci si debba in primo luogo far ingannare dal fatto che essa è così denominata, trattandosi in effetti di un’opera a sé stante. In secondo luogo, ci eravamo in un primo tempo risoluti di limitarci ad essa, sennonché i legami profondi che detto scritto ha con un altro scritto capitale del nostro autore, vale a dire, l’introduzione alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, ci hanno indotto ad avvalerci anche di quest’ultima sua opera, dato che essa si occupa anche di argomenti consimili.
In effetti, entrambe le trattazioni concernono in generale la figura d’Ibn Arabi, e la prima la sua opera capitale Fuşūş-l-Ĥikam, “Le Gemme”, o “I Castoni della Sapienza”, occupandosi quest’ultima inoltre del fondamentale commento di Qaysari, che a nostro modesto avviso è una delle sue principali chiavi di comprensione. Ma il fatto è, che oltre a quest’opera fondamentale della conoscenza dottrinale, vale a dire, del pensiero trascendente, si trattano nella suddetta introduzione tutta una serie di questioni fondamentali e spinose.
Questioni che vanno dall’esposizione della dottrina stessa dei livelli di conoscenza trascendente e delle sue stazioni, a quel che concerne più in generale gli uomini di conoscenza che vi sono coinvolti, sino alla questione cruciale del rapporto d’Ibn Arabi con le Genti della Dimora del Vaticinio ed i loro retti seguaci, che si riallaccia al principio stesso della visione presenziale trascendente, con la sua eventuale infallibilità, argomento questo assai delicato.
Sino a tutto l’insieme della materia delle narrazioni le quali vengono riportate sia pro, sia contro, sebbene in quest’ultimo caso per lo più indirettamente, la preminenza di quelle Genti, quanto sia alla comunità, nella loro funzione che ne concerne la guida pubblica e legislativa, sia ai livelli subordinati dell’essere, che sono la creazione stessa nel suo complesso, vale a dire, in un altro modo d’esprimersi, la questione cosiddetta “cosmologica” e “cosmogonica”, ovverosia la dottrina dell’universo e della sua generazione.
Questioni queste ultime in effetti assai spinose, in quanto esse coinvolgono non solamente la questione cruciale della successione e dell’eredità vicaria del Nunzio divino, ma si riferiscono inoltre alla funzione dello stesso Ibn Arabi, del Maestro Massimo, in seno alla comunità dei credenti, con tutti gli abusi che della sua figura sono stati fatti da taluni suoi cattivi seguaci, corrispettivi alla sua condanna senz’appello, ed alla svalutazione della sua figura somma.
Una materia dunque assai più vasta di quello che sembrerebbe dover essere l’argomento più immediato di quest’indagine assai preziosa del nostro autore, ma che nondimeno finisce col riconnettervisi intimamente, a riprova di tutta la profondità e l’altezza del suo pensiero, certo ben degno non soltanto di accostarsi a quello del commentatore per eccellenza di Ibn Arabi, Qaysari, ma persino di dire la sua quanto alla sublimità stessa del Maestro Massimo.
Non ci attarderemo in questa sede sulle questioni più accessorie ed erudite di questo scritto prezioso ed illuminante del nostro autore, le quali di troppo allungherebbero il nostro discorso. Nella sua prima parte infatti, a mo’ di esempio, la trattazione di Sayyid Astiani concerne la linea di sviluppo del pensiero trascendente, della conoscenza dottrinale, o speculativa, personificata nella sue massime personalità e Maestri, vale a dire, in lingua araba, con vocabolo oramai alquanto usitato, dell’”irfan”, nella fattispecie di quello “nazari” (speculativo).
Ci limiteremo in questa sede ad alcune considerazioni preliminari che lo concernono, riguardando in più particolare i Maestri di conoscenza. Quando si adopera in arabo il vocabolo “irfan”, che qui traduciamo semplicemente con “conoscenza”, siccome termine più usitato e perspicuo di quello di origine ellenica “gnosi”, facciamo riferimento ad alcunché di distinto, anche se non certo separato, dal corrispettivo “scienza”, con cui è possibile tradurre invece l’arabo “‘ilm”, di radice differente. Data anche, sia detto per inciso, la ricchezza radicale di questa lingua, atta ad esprimere le varie sfumature del pensiero.
Dove con l’apposizione propositiva “con” al verbo “scio”, da “gnosco” incluso in “conosco”, corrispettivo del greco “ghighnosco”, si fa riferimento non ad una composizione, ma ad un’identità rafforzativa che lo rende più immediato, e presenziale. Il fatto è che nell’antica lingua ellenica la scienza viene resa con “loghia”, “logia”, da “logos”, vale a dire “verbo”, o “discorso”, che rende più propriamente conto dell’intervento della ragione, dell’intelligenza discorsiva ed argomentativa, ad un livello subordinato di comprensione.
Ovverosia dell’intelligenza argomentativa peculiare alle cosiddette “scienze”, contrapposte in tal senso all’immediatezza della conoscenza. Avente il suo corrispettivo nella “coscienza”, in arabo “wijdan”, il rinvenimento presenziale originale, che a sua volta si riferisce alla radice “wajada”, “trovare”, “scoprire”, da cui il “wujud”’, con cui si traduce in arabo il nostro “essere”, appunto nel senso del rinvenimento presenziale primordiale, radicato nella presenza immediata del conoscente al conosciuto e nella loro identità.
Né ci si deve qui stupire del fatto, che anche l’”ifan nazari” è a sua volta discorsivo, e talora, anche se non sempre, come vedremo appunto in Ibn Arabi, argomentativo. Il fatto è che qui si fa riferimento alla scaturigine immediata del pensiero presenziale nel nostro mondo, che pur la fa da tramite per le altre conoscenze non presenziali, secondo quell’ordine delle conoscenze, dalla loro scaturigine superna, preconizzato da Tommaso d’Aquino e Molla Sadra, oggi del tutto dissolto, anche se velleitariamente, a dispetto delle ineludibili radici esistenziali di ogni qualsivoglia realtà, conoscitiva e no.
Ora “wujud”, o essere, è presente in forma verbale coniugata, non infinitiva, più volte anche nel Sacro Corano, quando non gli si voglia dare soltanto un senso banale sensitivo, contro la legge dello “scorrere” dei suoi significati, vale a dire dell’applicabilità complessiva del suo dire, corrispettiva ai suoi livelli esistenziali. Essere che d’altra parte è assente in arabo, al tempo presente, nella sua forma verbale non infinitiva non legata a “wajada”, ma a “kāna”, a riprova dell’identità senza residuo dell’essere con le realtà tutte, in una sorta di eterno presente, che prescinde da alterazioni temporali nullificanti.
È peraltro rimarchevole a questo medesimo riguardo, che la scienza degli esseri si riconnetta ad un’immediatezza sovraformale che prescinde da una forma rappresentativa, riconnettendosi all’essere ed identificandoglisi, come da Molla Sadra, il che ha valore per la conoscenza autentica, non per le sue varie ombre. Tenuto anche conto che sovente vi avviene una trasposizione di livelli superiore, solo incidentalmente trascesa all’esterno, oppure il compimento della forma difettiva, ferma essa restando, nella trascendenza.
Alla qual cosa fa peraltro da corrispettivo la distinzione tra la “scienza presenziale”, in arabo “al ilmu-l-huduri”, e quella argomentativa e discorsiva, fondantesi su di una conseguenza ed un conseguimento, in arabo ”husul”, non più su di un’immediatezza. Tutto questo a dispetto dell’uso reiterato, in virtù di questa sua qualificazione specificante, del termine “scienza”, “ilm”, invece di quello “conoscenza”, “irfan” appunto, essendo quest’ultimo, in un tal senso, la specificazione della scienza, vale a dire, la sua partizione ascendente perfettiva nel verso del suo essere compiuto trascendente.
Dove l’immediatezza medesima viene resa in arabo anche col vocabolo “badīhaħ”, vale a dire, l’intuizione presenziale immediata, che prescinde dall’argomentazione discorsiva. Distinzione questa la quale viene espressa da Tommaso d’Aquino con quella “scientia visionis”, corrispettiva anche all’arabo “šuhūd”, avente quest’ultimo vocabolo il senso letterale, immediato quanto a noi, di “testimonianza oculare”, che può essere anche reso da “kašf”, più propriamente la nostra “rivelazione”, il greco “apocalissi”.
Dunque dicevamo l’“irfan”, oppure “conoscenza”, nelle sue sfumature, con un termine di radice latina affatto usitato, atto a sfatare le immaginazioni varie che potrebbero legarsi all’uso di un vocabolo meno usitato, quantunque oggigiorno purtroppo corrente, come “gnosi”, data la presente ignoranza dell’antica lingua degli Elleni da parte dei più, termine il quale si presta in effetti a celare dietro di sé tutto ed il contrario di tutto. Per tacere a maggior ragione dell’uso diretto di termini arabi, per lo più affatto inintelligibili al pubblico nostrano.
Dicevamo dunque di “conoscenza dottrinale”, oppure “speculativa”, per richiamarci più propriamente al suo qualificativo arabo “nażarī”. Conoscenza la quale ha un suo ispettivo operativo, o piuttosto attuativo assai più propriamente, quest’ultima in arabo “fiºl”. Andrà in primo luogo osservato, a questo medesimo riguardo, che “fiºl” va distinto da “ºamal”, qualcosa di simile a quel che avviene per il greco “poieo” nei confronti di “prasso”.
Riferendosi più propriamente la prima coppia di termini ad un dominio che trascende l’immediatezza corporea, pur essendo anch’esso, a suo modo, contraddistinto da immediatezza. Tanto da corrispondere piuttosto al nostro “atto”, la greca “energia”, al di là sia degli abusi che se ne fanno al presente, specie da parte dello scientismo moderno, sia di quelli aristotelici, concernendo in senso stretto un progredire dell’essere nel verso del suo arricchimento e compimento, non un mera apposizione esterna di una forma ad una materia.
Questo corrispettivo operativo, o piuttosto assi meglio “attuativo”, come dicevamo, definisce un dominio correlato, distinto ma non separato dalla conoscenza dottrinale eminente. Dominio che si riferisce nella fattispecie all’itinerario e perfettivo dell’essere umano, più propriamente della sua intelligenza, quello che Bonaventura da Bagnoregio definiva l’“itinerarium mentis in Deum”, dove “mente” va intesa anche nel senso eminente d’”intelletto”, in generale di “intelligenza”, non solo come mera ragione argomentativa.
Questo dominio attuativo, o realizzativo, avrà anch’esso dei Maestri, che a volte si distinguono, a volte coincidono con quelli dottrinali. A rigore il Maestro attuativo sarà l’Uomo Perfetto, realizzato ab aeterno ai fastigi dell’essere, il quale nella dottrina dei seguaci della Dimora del Vaticinio coincide con i XIV Puri, nella fattispecie, al presente, con l’Atteso Ben Guidato vivente e presente, essendo ogni altro Maestro un suo semplice Vicario.
Qualifica di questi Maestri facenti funzione è di essere al giorno d’oggi occulti, come la sorgente dalla quale promanano, donde traggono la loro legittimità ed efficienza, essendo il loro un mondo celato ai nostri occhi, almeno nella nostra presente condizione abituale, cui fanno da corrispettivo nel dominio apparente, le catene iniziatiche sufiche, con le loro limitazioni formali, ed i Maestri di conoscenza dottrinale e realizzativa, il cui rapporto è diretto, ma occulto.
È a questa medesima stregua, che la funzione del Maestro coincide con la funzione esistenziale vicaria della luce muhammadica, dell’intelletto primo nel mondo creato, prima profusione divina, sia nel dominio della discesa creativa, dato che Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, si trasfonde nell’universo per il tramite di quella luce che Egli trascende dapprima immediatamente, per contatto diretto, senza soluzione di continuità, a rimarcarne l’Identità Suprema, “Luce su luce”, come recita il Sacro Corano, XXIV, 35.
Così come dall’altro canto, essendo quella luce la scaturigine prima di quell’attrazione, o rapimento, oppure grazia iniziatica, la quale fa sì che la persona umana si empia di essere, venendo iniziata ai segreti divini, approssimandosi di livelli in livello, di suo centro in suo centro, a quella Sostanza Suprema. Essendo le profusioni che consentono tale ascesa, le grazie iniziatiche, irradiazioni divine per il tramite del Suo Vicario immediato superno. Senza che questa sia la sede per vedere, quale sia il modo dell’attuarsi.
Questa medesima realtà delle cose presuppone una conoscenza immediata, o no, almeno il più delle volte, a prescindere da un intervento, da una grazia divina diretta. Conoscenza dunque dei livelli dell’essere, nella loro natura esistenziale nei due archi dell’ascesa e della discesa, com’è preconizzato dal Sacro Corano: “(vi sono) gradi presso Iddio”, III, 163, verso questo da interpretarsi, come appunto spiega Tabatabai nel “Mīzān”, alla luce del suo “scorrere”.
Conoscenza dottrinale che dunque, ben lungi dal ridursi ad un mero ghiribizzo discorsivo, si fonda sulla visione diretta, da quella d’Iddio Altissimo, eccelsa Ne sia la lode, di Sé stesso, a quella che Ne hanno i beati, come recita Tommaso d’Aquino nella Summa. La qual cosa corrisponde peraltro perfettamente a quegli “uşūl”, i principi, od allo “šohūud”, sempre la medesima “scientia visionis”, di Molla Sadra, dei quali tratta nella sua premessa agli Asfar, o com’è, e spiega lo stesso Qaysari, quanto ad Ibn Arabi, quanto quelle realtà superne e Supreme che consentono il profondersi della conoscenza.
Conoscenza dottrinale e speculativa dunque che nulla ha a che vedere con il razionalismo oppure con l’irrazionalismo del pensiero occidentale moderno e contemporaneo, ma che semmai è strettamente legata a quella che è detta in arabo “ĥikmaħ”, la nostra “sapienza”, che è lo sviluppo discorsivo della tescendenza, radicata nei suoi principi immediati e presenziali, quella che Tommaso d’Aquino definiva siccome la “cognoscentia per causas altissimas”.
Ora dunque, prescindiamo dall’ufficio attuativo affatto occulto, come già dicevamo, che non s’identifica necessariamente con le catene d’iniziazione sufiche. Prescindendone nella sua forma più pura, scevra dalle loro formalità esterne, esternantesi solo nella lettera del libro e nella persona dell’unica Guida presente e vivente, dell’Atteso Ben Guidato, vale a dire da quell’iniziazione formale o virtuale non strettamente necessaria nella sua forma cerimoniale, come osserva lo stesso Réne Guénon, contro i suoi cattivi interpreti.
La conoscenza dottrinale avrà dunque tutto un suo ambito, una sua dignità, ed una sua necessità, seppure quest’ultima non assoluta, come appunto già dicevamo. Sotto questo medesimo riguardo almeno, citiamo qui direttamente il nostro autore, “Ibn Arabi ha la precedenza su qualsivoglia uomo di conoscenza”. Vorremmo peraltro qui osservare e chiarire, a mo’ di nostro commento, com’è che un assunto siffatto vada inteso “in senso diviso”, non “in senso composito”, per avvalerci di una locuzione della “scolastica”.
Perché Ibn Arabi non è propriamente pensatore, o “filosofo”, anche se nel senso suddetto della “sapienza”. Nel senso che le sue sono principalmente visioni, le quali egli riporta fedelmente, com’è che egli asserisce che gli era stato ordinato, si veda a questo riguardo la sua premessa ai “Fusus”, della qual cosa non abbiamo nessuna ragione di dubitare, a meno di prendere le sue dottrine eccelse ed ispirate per mere immaginazioni e ghiribizzi individuali.
Non abbiamo nessuna ragione di dubitare che un’altezza siffatta, sovente ineguagliata, di contemplazione, debba porre le sue visioni tra le ispirazioni divine. Dato che, come osserva affatto correttamente Qaysari nell’introduzione al suo commento ai Fusus, è prerogativa delle visioni ed ispirazioni divine la loro sublimità, con tutte le sue conseguenze morali e d’attitudine, di chiarore, soddisfacimento, e pacatezza, nella stessa vita ordinaria.
Della qual cosa possiamo fare tutti noi l’esperienza, rendendone testimonianza, allorquando ci troviamo al cospetto di quelle personalità, nelle quali sentiamo che vibra un riflesso ed un raggio della luce divina, Tutto il contrario delle ispirazioni sataniche, le quali calmano all’ínizio, per poi sommuovere, scevre com’esse sono di conformità esistenziale, mentre le prime commuovono per poi calmare. Essendo anche questa, come dicevamo, un’osservazione preziosa di Quysari, nella parte citata dell’opera cui si fa qui riferimento.
Ibn Arabi è dunque depositario di un’ispirazione divina, che non è però né quella del Nunzio Divino, né quella dei suoi eredi e Vicari. Le Rivelazioni Meccane lo attestano nel loro stesso titolo. Mentre per i Fuşūş lo stesso Ibn Arabi, nella sua premessa, asserisce d’avere ricevuto quest’opera direttamente dall’Inviato d’Iddio Altissimo, del che non abbiamo nessuna ragione di dubitare, avendone dato l’argomento, in attesa di quello in contrario: “date il vostro argomento, se siete veritieri”, Sacro Corano, XXVII, 64.
Vale la pena qui osservare, che negare l’assunto suddetto, equivarrebbe a ad attestare la mancanza di ragione sufficiente, in arabo “tarjīĥ”, vale a dire, il pendere della bilancia dall’una una parte oppure dall’altra, di dottrine altrimenti inesplicabili con qualsiasi elaborazione mentale, in virtù della loro scaturigine e del loro procedere superiore, come affermava peraltro anche Tommaso d’Aquino, Essenziale o no che essa scaturigine sia, ma sempre trascendente.
Dicevamo dunque che Ibn Arabi non è dunque pensatore, o “filosofo”, o più propriamente “sapiente”, nel senso suddetto della “ĥikmaħ”, dato che in lui l’apparato discorsivo è ridotto al minimo, od è implicito rispetto alla contemplazione pura. Essendovi inoltre il principio di causa ricondotto direttamente, senza residui d’altra sorta, all’irradiarsi della luce divina. Senza che dunque abbia ad acquisirvi nessuna consistenza il conformarsi causativo ed apparentemente separativo dei vari livelli subordinati dell’essere.
Com’ebbe a chiarirci personalmente il nostro Maestro di morale conoscitiva, o irfanica, Karīm Ĥaqīqī Šīrāzī: “Iddio è la Luce dei cieli e della terra”, Sacro Corano, XXIV, 35. Il che fa di Ibn Arabi il Maestro certo “Più Grande”, il “Maestro Massimo”, com’ebbero a salutarlo i suoi seguaci e successori, né questo indubbiamente in un senso, vale la pena ripeterlo, meramente umano, laonde non ci resta che inchinarci riverenti al suo cospetto.
Ma se consideriamo l’aspetto più propriamente discorsivo e razionale, quantunque sottoposto a quello della visione trascendente, com’è invece per Molla Sadra, la palma del confronto, che nulla ha a che vedere con una contesa, che non sussiste per uomini divini, va a nostro avviso a quest’ultimo, cui va meritatamente l’appellativo di “Şadru-l-Muta’allihīn”, vale a dire, “Fastigio dei Deificati”, degli estinti in Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere.
Quasi anche a rimarcare in questo modo, che in quest’ultimo sapiente è presente in modo assai più esplicito e sviluppato una dimensione ulteriore, quella iniziatica discendente, corrispondente al terzo ed al quarto viaggio dell’intelletto negli Asfar. Dimensione presente invece solamente in nuce, esemplarmente e come accenno nel primo, il quale dunque viene a presentarsi siccome un culmine in sé, sotto questo medesimo riguardo affatto ineguagliato, al quale fanno riscontro le discese sapienziali ed iniziatiche, del secondo.
A nostro modesto avviso la preminenza non certo assoluta, secundum quid, sotto un certo riguardo, di Molla Sadra quanto ad Ibn Arabi, con l’aspetto reciproco quanto alla superiorità di questo su quello, è dovuto al suo radicamento più esplicito e completo nella dottrina delle genti della Dimora del Vaticinio, premessa di ogni ascesa a Iddio Altissimo, eccelsa ne è la lode, ed al Suo Inviato, con le sue ulteriori particolarizzazione iniziatiche discendenti.
Laddove invece, sempre secondo il nostro modesto parere, la priorità di Ibn Arabi va riportata alla sublimità dello “ºamā’”, il “nembo” superno in cui era Iddio, sia magnificato ed esaltato, prima della creazione del mondo, come riportato in talune narrazioni riferite al Nunzio divino. Dove detto vocabolo ha la medesima radice di “ºamiya”, essere cieco, oscuro, nel senso dell’estinzione in Lui, com’è nel greco “myo”, “chiudere gli occhi”, da cui “mistica”, e “mistero”.
Particolarità iniziatiche discendenti, che non sarebbero spiegabili se non con la dottrina compiuta ed esplicita delle Genti della Casa, col radicamento donde discendono, ma non sotto il riguardo del principio, seppure con la sua esplicitazione esemplare, il quale è presente indubitabilmente ed evidentemente, con le sue implicazioni, come vedremo più innanzi, anche in Ibn Arabi, in tutta la sua sublimità, com’è anche perspicuo dai riferimenti testuali di Qaysari.
Quello che qui ci preme ancora di osservare, è che queste dottrine conoscitive e sapienziali non sono certo mere invenzioni, cioè “innovazioni”, in arabo bidºaħ, come pretenderebbero invece taluni imbecilli, ignoranti e presuntuosi, i quali vorrebbero amputare dall’uomo taluni suoi aspetti, vale a dire, tutti i suoi riguardi superiori, per poi imporgli, ammesso inoltre che essi lo vogliano e che tentino di farlo, l’incombenza dell’ascesa alle stazioni divine.
La qual cosa essendo affatto contraria alle reiterate ingiunzioni coraniche. È la scaturigine divina, più che non il prestito contingente, com’è convinzione del neopositivismo trionfante delle università d’Occidente, specialmente di quelle del mondo anglosassone, a spiegare in primo luogo, non viceversa, la loro presenza in altre correnti tradizionali sapienziali quali quella platonica, oppure anche quella vedantica, a dispetto di tutte le escogitazioni degli eruditi.
L’amputazione suddetta avviene nel medesimo modo di quella dottrina massonica, oggigiorno neoindù-massonica, che pretenderebbe, com’è anche per Hegel e per Heidegger, di far ascendere l’uomo dal basso di un preteso vuoto originale, inesistente in natura, senza dargliene il modo e la sostanza, come se l’uomo non procedesse da Iddio Altissimo, sublime Ne sia la lode, a Lui ritornando per gradi successivi, quei medesimi configurantisi nella natura originale dell’essere umano: “siamo d’Iddio, ed a Lui ritorniamo”, Sacro Corano, II, 156.
Il fatto è che il pensiero argomentativo, o “filosofia” che dir si voglia, è incluso in una guisa eminente ab origine nell’ispirazione dei Nunzi divini, nella loro conoscenza e visione, donde trae la sua dignità. Estrinsecandosi poi a mano a mano per il debilitarsi di una sostanza umana, con la sua attitudine primigenia, non più capace per sé di ascesa e visione diretta, rappresentando in questo modo più un regresso che un progresso, quantunque venga ad essere tale in senso diviso, come appunto dicevamo poc’anzi.
Come in quella che era la dottrina tradizionale cristiana, la grazia divina non si limita più, nello stato dell’uomo corrotto, ad influenzare l’agire umano, com’era in quello originale, avendo questi bisogno che essa glielo fornisca, assieme alla stessa attitudine, similmente così è per questo pensiero, che ha bisogno d’illazioni, non essendo più l’intelligenza umana atta ad un concatenarsi immediato e presenziale, come osserva acutamente Tommaso d’Aquino.
Lo stesso Molla Sadra, il pensatore divino per eccellenza, osserva che il discorso e l’argomentazione ebbero a diffondersi nella comunità dei credenti dopo che un pensiero corrotto d’origine ellenica si era sforzato di traviarla. La stessa reazione di cui fu antesignano e vessillifero Socrate, con l’arma del medesimo pensiero razionale, seppure d’ispirazione anch’esso trascendente, contro una razionalità o razionalismo, nel suo abuso indebito, depravato e depravante.
La stessa cosa che sta accadendo, o meglio, è già accaduta nel mondo occidentale contemporaneo, senza che però vi si abbia a scorgere una qualche reazione di tal sorta, che abbia a contrastarne l’apparente trionfo. Essendo questo purtroppo un andamento che dall’Occidente tralignato va spandendosi, come una tabe immonda, a tutto il resto del mondo, pressoché incapace, almeno nella maggior parte dei casi, di una qualsivoglia reazione rettificatrice.
Dunque tanto il discorso, quanto l’espressione contemplativa discorsiva immediata saranno contenute ad origine nell’intelligenza trascendente, nella fattispecie nella Rivelazione divina, e nei detti delle Genti della Dimora del Vaticinio, vale a dire, nel Libro Divino, e nell’eminenza umana delle persone dei suoi latori, dalla scaturigine del Nunzio, la quale è da Quella Divina, con tutti i livelli sopraordinati antecedenti che la loro dottrina presuppone.
Nulla dunque d’equiparabile, vale la pena ripeterlo, ad una qualsiasi immaginazione od invenzione individuale, o novità arbitraria. Com’è anche del resto per il procedere della deduzione giuridica dalle sue fonti, tramite i suoi argomenti, la quale anch’essa sarà da presupporsi ab origine, o virtualmente, od a vari livelli di trascendenza, in una continenza eminenziale superna e suprema che è all’origine del suo concatenarsi, a prescindere da errori umani, sempre possibili nel tempo dell’occultamento dell’Atteso Ben Guidato.
Il nostro autore dunque, in questa sua introduzione, ci presenta un excursus complessivo su tutta la dottrina trascendente ispirata di Ibn Arabi, sulle sue sublimità, sulle sue difficoltà e sui suoi punti oscuri, così come su tutto l’insieme di quella conoscenza contemplativa che su di lui s’incentra, essendogli legata. È dunque rimarchevole l’esame di tutti i grandi uomini di conoscenza, che la fanno da luci nella costellazione del configurarsi dell’irradiazione divina nella Comunità dei Credenti a procedere dai Suoi Intimi.
Essendo peraltro affatto rimarchevole, nella considerazione del nostro autore, una sua nota su di un certo impoverimento, in certe contrade della Comunità dei Credenti, di una siffatta attitudine conoscitiva, la quale ha finito con l’indurre taluni ricercatori musulmani a farsi insegnare la dottrina di Ibn Arabi da professori universitari occidentali, nella fattispecie inglesi e francesi, i peggiori a nostro avviso, portandoli ai più inverosimili travisamenti.
Ora la cosa è in primo luogo assai significativa del presente stato di debilitazione non diciamo certo degli studi universitari, quanto piuttosto della perdita d’elevatezza e trascendenza in seno alla Comunità dei Credenti nella stragrande maggioranza delle nazioni musulmane. Questo sotto riguardi apparentemente differenti. Dicevamo in primo luogo, del progredire disanimato del neopositivismo insulso e sterile delle università, specie anglosassoni.
Dall’altra parte, il progredire nefasto dell’immonda ondata wahabita e salafita, a cui fa da contraltare tutto un insieme di sedicenti confraternite sufi ridotte a mere buffonate, sovente prezzolate dall’oro della famiglia Saud, che Iddio la maledica e la sprofondi. Per poi blaterare all’occorrenza d’interiorità ed esteriorità, fatto salvo, per la cosiddetta esteriorità, un completo appiattimento sulle mene dei nemici d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, nella fattispecie sionisti, americani, inglesi, e sauditi.
Eccezione rimarchevole l’Iran della Rivoluzione islamica, con le sue propaggini, specie quelle libanesi ed irachene. Dove non solo, a dispetto di opposizioni anche viscerali, che coinvolsero persino l’Imam Ķomeynī, che Iddio ne esalti la stazione, anche all’indomani della vittoria della Rivoluzione, la conoscenza trascendente continua a fiorire, dove non solo la Rivoluzione Islamica è stata guidata precipuamente dalla corrente sapienziale sadriana d’interpretazione del Messaggio Rivelato e dell’eredità Vicaria.
Fiorendovi tuttora, gli studi sapienziali, nella fattispecie quelli su Ibn Arabi, sia nelle università, sia ancor di più nei centri d’insegnamento religioso, come presso i Maestri di “aķlāq”, di morale conoscitiva, od irfanica, dove esiste ancor oggi, essendovi in pieno sviluppo, tutta un’eredità sapienziale, sia dottrinale che attuativa. Godendovi gli uomini di conoscenza, gli ºārif, di grande credito e seguito presso tutti gli strati della popolazione, anche i più umili, del che chi scrive, che vive in Iran da vari anni, può rendere diretta testimonianza.
Dove va osservato che, con apparente stranezza, Ibn Arabi è osteggiato in Iran in particolare, oltre che dai letteralisti, anche da talune confraternite di “dervisci”, i sufi sciiti, che in Occidente si tenta di far passare menzogneramente per depositari dell’autentica spiritualità dei seguaci delle Genti della Famiglia del Nunzio divino. Il tutto a dispetto delle inevitabili pressioni, anche veementi, nel verso della secolarizzazione, che sta tentando di mettervi radice e pianta, dopo d’avere trionfato in quasi tutto il resto del mondo.
Ora dicevamo, che Sayyid Āštiyānī depreca giustamente l’assenza di studi e Maestri di conoscenza, specialmente in quell’Egitto che ne fu in passato uno dei depositari, patria di quel sommo Ibn Fāriď, la cui persona ed i cui versi sono assorbiti nella trascendenza, tanto da indurre taluni, come avevamo premesso, a finire con l’approdo sulle spiagge ingannatrici dell’Occidente secolarizzato, con le sue università neopositiviste fomentatrici di errori.
Dov’è che ci si darà a dire, com’è appunto rimarcato nello scritto in questione, che quanto tratteggiato da Ibn Arabi quanto ai depositari, vale a dire ai Fuşūş, alle Gemme, o Castoni della sapienza divina, non avrebbe nessun rilievo di fatto nelle vicende umane, trattandosi di mere finzioni mentali. Posizione per certi versi simile a quella del “neognostico” dualista Corbin, con la sua concezione della cosiddetta “ierostoria”, coinvolgente anche la persona dell’Atteso Ben Guidato, che Iddio Altissimo voglia affrettarcene la gioia.
Dove ci si dà ad asserire, fraintendendo il testo del Sacro Corano, che Nunzi come Noè, la pace su di lui, si sarebbero limitati alla negazione degli attributi divini, l’”apofasi”, ignorando od astenendosi dalla trasposizione, la “catafasi” che consente l’ascesa dal nostro mondo ai livelli superiori dell’essere. Asserendo inoltre l’assurdo, per cui Al Ĥallāj sarebbe stato un assertore dell’insediarsi nella sua natura umana della sostanza divina, una sorta d’“incarnazione” alla cristiana, se ci si riferisce alla natura individua umana, non al supposito divino, che vi si associa nella “communicatio sermonum”, l’arabo “ĥulūl”.
Ignorando forse trattarsi di un’assurdità, di cui Al-Ĥallāj non poteva essere ignaro, dato che ogni discesa divina, a smentita della stessa dottrina dell’incarnazione, dell’unione personale od ipostatica, presuppone tutti i livelli antecedenti dell’essere, dei quali anche s’approprierà esemplarmente in virtù grazie alla sua continenza eminenziale d’ogni mondo, attuata e non difettiva od in potenza, come per gli uomini ordinari, come afferma lo stesso Molla Sadra.
Questo senza dover negare che anche in Occidente non sono mancati studiosi seri, come Chittick e Corbin, quest’ultimo nonostante, come appunto dicevamo, tutte le sue fisime “neognostiche” e dualiste, che lo portano a separare, nel verso appunto della dualità, e non dell’unità, o meglio, dell’Identità Divina, i livelli dell’essere, riducendo l’Atteso Ben Guidato, e la religione tutta, ad una mera esistenza sottile ed immaginale, od addirittura larvale.
Non sono mancati dunque studiosi seri, capaci d’imparare dal mondo che studiavano, senza pretendere d’erigersene a freddi giudici indifferenti, dal basso della loro incompetenza. Tanto che ci è stato riferito che il Professor W. Chittick, seppure occidentale, seppure anglosassone, a dispetto delle tare del suo ambiente e della sua razza, avrebbe affermato la superiorità senza confronto di un Fayyiď Kašanī, genero e continuatore di Molla Sadra, rispetto a tutte le immaginazione vane ed insulse, se non addirittura infere, di un Einstein.
Ora gli errori suddetti sono dovuti ad una mancata conoscenza, sia pure la più elementare, della dottrina dei livelli dell’essere e dell’Unità ed Identità Divina, esposta da Ibn Arabi, dal punto di vista dell’essere, non certo delle rappresentazioni mentali, a dispetto della sua presenza e continuità, in primo luogo ispirata, nell’Occidente trascorso, da Parmenide, a Platone, a Plotino, a Scoto Eriugena, a Tommaso d’Aquino, a Bonaventura da Bagnoregio, a Duns Scoto.
La qual cosa introduce le confusioni e le cesure suddette da parte della maggioranza dei ricercatori occidentali, e di taluni musulmani, risolvibili solo nel senso della modulazione del profondersi dall’Essenza Divina, con i suoi aspetti di gradualità, rimarcati da Molla Sadra, di processione e trascendenza, d’affermazione e negazione, di “catafasi” ed “apofasi”, a procedere dall’Identità Suprema dell’Essere, com’è dall’intuizione trascendente.
Il tutto va riferito anche al rifiuto da parte dei più di costoro della missione divina di Muhammad, benedica Iddio lui e la sua Famiglia immacolata, rifiuto immancabilmente biasimato dal nostro autore, la qual cosa li rende i meno atti, com’ebbe ad osservare assai acutamente e correttamente Guénon, nella loro indifferenza alla realtà, nel loro positivismo kantiano e dubbio cartesiano, a darne un qualsivoglia giudizio degno di una qualche considerazione.
Si limitino dunque costoro, saremmo tentati di dire, a sezionare i loro cadaveri, come fanno i loro colleghi medici moderni, non certo la conoscenza trascendente, ad essi preclusa, come recita il Sacro Corano, II, 7, nell’attesa che questa “opera al nero”, di per sé stessa empia e fuorviante, la quale purtroppo ha oramai messo piede dappertutto, venga alla fine provvidenzialmente proibita ed annichilita dall’Atteso Ben Guidato. Come dice Gesù, la pace su di lui, nell’Evangelo, “i morti seppelliscano i loro morti”.
Dicevamo della dottrina dell’Identità Divina, con cui traduciamo il vocabolo arabo “Waĥdaħ”, essendo questo il punto e di partenza e di arrivo degli uomini di conoscenza realizzati, vale a dire, gli “ºārif”, a partire dal loro Maestro Massimo, Ibn Arabi. Ignorare questo punto, il quale rende possibile sia sotto il riguardo della dottrina, sia sotto quello della realizzazione di fatto, il comunicarsi della profusione divina dai livelli superiori dell’essere a quelli inferiori, può portare ai fraintendimenti più incresciosi.
L’Identità, a differenza dell’unità, prescinde da ogni qualsivoglia alterità, vale a dire, da un’altra identità, laddove invece l’unità potrà darsi, com’è noto, anche nel dominio meramente numerico, come una successione di simili, com’ebbe appunto a chiarirci personalmente il nostro Maestro di conoscenza Karīm Ĥaqīqī. Seppure essendo suscettibile di una trasposizione superiore, nel senso dell’Uno, dell’“En” di Plotino superessenziale, dell’Identità, com’è anche per il Bene platonico, pure superiore all’“essere che è” riflessivamente.
In questa sede, facciamo riferimento come già dicevamo all’inizio, oltre che alla presente opera, anche alla magistrale introduzione di questo nostro medesimo autore alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, essendovi in entrambe tratteggiata, nella seconda a modo di premessa, la dottrina dell’Identità Divina. Perché in quest’ultima opera, a differenza della sua introduzione a Qaysari, Sayyid Āštiyānī inizia la sua discussione proprio dal chiarimento della dottrina del livelli dell’essere a procedere dalla loro Scaturigine Prima in Divinis.
Dunque la Stazione Suprema dei livelli dell’essere sarà quella dell’Ipseità Celata, essendo il Suo esternarsi significativo e qualificativo quello dell’identità appunto, com’è rimarcato anche nella presente introduzione. Dov’è da osservarsi, che all’identità medesima può essere anche assegnato, per traslato, il senso superiore e Supremo non manifestato dei Penetrali dell’Occulto, donde Ne procede il qualificarsi primo, vale a dire, l’Essenza e l’Ipseità.
Questo a differenza dell’Imam Ķomeynī, il quale invece deduce tutto dall’Uno Trascendente, questo d’accordo e con la sura dell’Unità Divina nel Sacro Corano, e con gli assunti dei platonici, sia di Platone nel Parmenide, cui potrebbe essere aggiunto il Bene Superessenziale della Politeia, sia di Plotino. Laddove egli deriva dall’unità semplice le distinzioni esemplari attuative e qualificative dell’unicità, mentre Sayyid Āštiyānī deriva dall’identità sia l’unicità, sia l’unità sostanziale che in essa si riverbera identicamente.
Perché dunque tutto questo? Perché ignorarlo potrà dare luogo ai fraintendimenti più incresciosi, quali quelli suddetti, quanto ai livelli dell’essere, perché ignorare la funzione vicaria significa negare la mediazione, con le immaginazioni di un procedere primigenio dal basso. Sia quanto alla compresenza nel dominio della trascendenza dei due livelli legittimi, della negazione e dell’assimilazione, da riferissi il primo più propriamente all’Ipseità, il secondo alla sua scaturigine qualificativa, scaturigine esemplare del mondo creato, quantunque siano entrambe in entrambe.
Così come per l’argomento dell’“incarnazione”, che a rigore sarebbe l’inverso, cioè la sussistenza immediata della natura individua umana mercé del Supposito Divino. Essendo invece l’Ipseità Essenziale scevra, in quanto Stazione Suprema, da ogni sussistenza o supposito, e da ogni relazione personale d’origine nella guisa trinitaria, a produrre ab inizio l’Uomo Perfetto, nel suo accentrarsi i vari livelli discendenti dell’essere, compreso quello della cosiddetta “trinità”, in realtà il configurarsi vicario della luce muhammadica.
Con la pretesa di prescindere dall’ascesa assimilativa, come dalla discesa attuativa, in realtà una ricapitolazione complessiva esemplare da riferirsi al mondo dei nomi divini, senza nessun nesso con il Livello Supremo dell’Ipseità, che non sia quello di una mera estinzione, o di una mera identificazione, dovuta al negarsi della partecipazione debilitativa esemplare al mondo dei nomi divini, all’origine dell’indebolimento dell’essere esistenziale.
Ora tutto questo conduce, per la suddetta separazione, anche ad un’assimilazione sfrenata, al dio uomo, “che era un uomo come noi”, come recitano taluni, non più all’uomo che procede da Iddio, Ne sia esaltato l’Essere, ed a lui fa ritorno, S. C., II, 156, con tutte le ricadute incresciose che un assunto siffatto avrà nelle vicende dell’Occidente moderno prima, poi del mondo intero. Con un alternarsi affatto scisso di assimilazione e trascendenza sfrenate, senza che si sia capaci di ravvisarne la radice e la concordia.
Pur essendo la lacuna e la frattura in parte colmata dalla dottrina del cristianesimo orientale, nella fattispecie nella corrente palamita, delle cosiddette “energie” divine increate, vale a dire, nella sapienza islamica, i Suoi nomi ed i Suoi atti, prodotte prima di ogni “tempo”, in senso o corporeo, oppure traslato nel verso dei puri domini sovraformali “angelici”. Mondo orientale che sarà coinvolto assai più tardi dai disordini dell’Occidente modernizzatore.
Questa è la dottrina ispirata, espressa o palesemente o copertamente dai grandi uomini di conoscenza, da Parmenide, Platone, e Plotino, a Tommaso d’Aquino, dal Maestro Sommo Ibn Arabi, al Fastigio dei Deificati Molla Sadra, sino a Mirza Qomšey, all’Imam Ķomeynī, a Sayyid Āštiyānī, in questo nostro tempo. È chiaro che una dottrina siffatta sarà tale dell’unità e dell’identità dell’essere a tutti quanto i suoi livelli, a sfatare tutte la varie immaginazioni ed illazioni vane che sono state propalate a questo medesimo riguardo.
Questo in ragione del riverberarsi della Luce Suprema in tutti i mondi, S.C., XXIOV, 35, quali che siano, sovraformali “angelici”, immaginali superiori, immaginali inferiori, e corporei, anche in senso traslato concomitante, ed inferi. Ora è anche rimarchevole a questo medesimo riguardo, che l’Identità Suprema, com’è sottolineato da Sayyid Āštiyānī nella sua introduzione alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, avrà come sua prima processione una realtà prima prodotta, partecipe al grado più alto della Sua Identità, od Unità Suprema.
Nel senso di un insieme di qualificazioni, quivi prima delle determinatezze successive, in arabo ºayn, dell’universo, creato od increato che sia. Vale a dire, a questo livello superiore, creato in un verso, o prodotto, ed increato in un altro verso, identiche tra loro seppure nelle loro distinzione non separativa, così come anche identiche a quella sostanza primigenia che le pervade. Fatto quest’ultimo, rimarcato anche da Tommaso d’Aquino, e da Molla Sadra, che lo traspone legittimamente anche all’Identità Suprema dell’Essere.
È qui da rimarcare, contro certe scorrette escogitazioni corbiniane, vedi la sua introduzione ai Mašāºir di Molla Sadra, che si tratta di alcunché di compiuto, semplicemente ed infinitamente, a prescindere dal livello superiore d’infinità, non suscettibile pertanto di un compimento ulteriore, che sarebbe in ogni caso meramente risolutivo o reduplicativo. Senza nessuna lacuna nei confronti del Livello Supremo, nel confronti del Quale, “Luce si luce”, S.C., XXIV, 35, sarà come a contatto, in arabo “ºalā”, “sopra” con contatto, non “fawqa”, senza contatto.
Nessuna soluzione di continuità dunque, siccome di un’identità successiva che non proceda da nessuna intermediazione, tanto meno del vuoto, insussistente a qualsivoglia livello di realtà, contro le immaginazioni fallaci, corrotte, ed insipienti della scienza moderna d’Occidente. Tanto che, al di là di questo livello di distinzioni identicamente semplici, non vi sarà se non l’identità Suprema dell’essere, con la sua trasposizione degli attributi divini, “i Nomi Più Belli”, S.C., LIX, 24, XX, 8, XVII, 110, identici alla Luce Vicaria.
Contro le inaudite assurdità corbiniane, che si permette di accusare gli assertori di questo compimento di non si sa bene quale “idolatria metafisica”, con una contradictio in adiecto fondata sull’accozzamento di un insieme di vocaboli di radice ellenica, di non immediata intelligibilità, com’è vizio comune della lingua francese. Senza rendersi conto di precipitare nella voragine dell’adorazione di simulacri corporei, “idolatria fisica”, del mondo della generazione e corruzione, con le sue condizioni limitative, che egli finisce col trasporre disinvoltamente sino ai livelli più elevati della trascendenza.
Ora questa dottrina dell’unità, che conseguenze verrà ad avere per questo nostro basso mondo, nella fattispecie, per il nostro mondo umano, ed ancor più in particolare per la Comunità dei Credenti? Perché il tutto, com’è che avevamo appunto già visto, sarà legato intimamente, senza cesure incolmabili le quali non siano meramente immaginarie o privative, in virtù dell’essere che è univocamente. Tanto che si avranno in questo modo sempre nessi, e laddove non s’abbiamo, ciò sarà conseguenza della negazione dell’essere.
Perché anche qui, per uno degli aspetti subordinati dell’identità dell’essere, che può avere vari significati a differenti livelli, avrà da riverberarsi in un qualche modo quell’unità, che non andrà confinata alla prima processione dell’Essenza. Dicevamo che quest’ultima, l’intelletto primo, od attivo, o la luce muhammadica, increata quanto al prodursi successivo dell’esistenza, sarà quanto più possibile partecipe dell’Identità dell’Unità Suprema dell’Essere, senza che però questa partecipazione abbia a perdersi nei i livelli successivi.
Nel senso che anche per i livelli susseguenti, quelli della determinatezza, oppure determinazione, in arabo “ºayn”, a procedere dalle “determinate fisse” esemplari, “al ºayānu-ŧ-ŧābitħ”, a loro volta produttive per intermediazione del mondo inferiore, si avrà un succedersi di distinzioni già in qualche modo separate in virtù della loro identità col non essere relativo. Com’è appunto rimarcato dall’Imam Ķomeynī nella Mişbāĥ, dal nostro autore nella sua introduzione a quest’opera, da Ibn Arabi, e da Molla Sadra in più parti degli Asfar.
Separazione che viene introdotta dal non essere l’una l’altra nella sua parzialità, non nella sua totalità una trascendente, che ne è l’essere stesso, di livello in livello. Questo in attesa di un supporto risolutivo che ulteriormente la frammenti, la cosiddetta “materia”, superficie del “mare tenebrarum”, di fatto inesistente di per sé stessa, con i livelli ad essa successivi di compimento ed incoazione risolutiva, e come di partecipazione quanto ai mondi immaginali superiori od inferiori, nel senso della sua diluizione, nel verso dell’essere, oppure della sua intensificazione dissolutiva nel verso del nulla puro.
Questo sino all’immersione nei mondi inferi dissolutivi, nel loro difetto di qualità, meramente negate nel loro differente contenuto d’essere, che li avvicinino, se non per mera inversione, ai mondi superiori dell’essere. In precedenza, sino al mondo corporeo, dissoluzione incoata sospesa sui vari livelli della dissoluzione compiuta, al cui centro si riverbera l’unità complessiva umana, sia pure moltiplicata in quanto tale dal suo apprendersi a quella “materia”, superficie e supposito primo del non essere puro, come nota Molla Sadra.
Unità dunque, sempre. Ma com’è che questa unità si moltiplica? Dal suo livello superno, nel suo prodursi dalla Risoluzione Suprema, si riverbererà in tutta una serie di determinatezze di un “unico” distinto, in arabo “wāĥid”, e variamente e progressivamente sempre più separato. Il quale ne compendia in divinis ogni definitezza, a partire da quelle complessive, che includono in sé, sia pure nella loro distinzione di unicità corrispettive all’unità, quelle successive e sempre più frammentate, quelle dell’universo creato in senso stretto.
“Sono questi i Nomi più belli”, dei quali il Sacro Corano al loro livello superno, che procedono direttamente dall’Essenza Sovraessenziale, dall’Ipseità Segreta nell’Identità Divina, ove sono pure inclusi esplicitamente, S. C., XXXVII, 59-60, non per arcano, com’è per le altre determinazioni. Dov`è da rimarcarsi, che Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, insegnò ad Adamo, la pace su di lui, i nomi, i Suoi nomi, S. C., II, 31, nel loro vario significare, non significato, com’è per noi, trascendente e no.
Laonde si ebbe in questo caso, o meglio “si ha”, nel presente sempiterno, una profusione originaria, non acquisita, di doni divini trascendenti. Laddove invece ci sono pervenute narrazioni, in cui le stesse Genti della Dimora del Vaticinio, i XIV Puri, attestano “siamo noi i nomi più belli”. Col che essi fanno riferimento alla processione ad extra della luce muhammadica, ovverosia alla luce muhammadica come processione dell’Identità Occulta, a prescindere dalla sua successiva determinatezza fissa.
Od addirittura, ci si perdoni l’ardire, all’Identità Suprema, il Cui Segreto è accennato in primo luogo con quel contatto del “sopra”, in arabo “ºalā” come dicevamo, senza soluzione di continuità, preconizzato del testo stesso del Sacro Corano, XXIV, 35. Oppure nel verso, XXXVII, 159-160, in cui all’interdizione della qualificazione dell’Essenza, fanno eccezione i Servi Puri, espressione che compare all’accusativo, non al nominativo, nel senso non di quello che essi attribuiscono, ma nel senso stesso del loro essere attribuiti.
Qualcuno potrà ben rifiutare quelle narrazioni, o l’interpretazione dei versi coranici, del che gli diamo atto. Ma dato che abbia a rifiutare il tutto se ne farà carico, col risultato di ridurre gli eventi del mondo, spezzata che sia la completezza della catena delle mediazioni, all’alterazione di una materia prima, o di un essere infimo indefinito ed insussistente di per sé, oppure del nulla puro, nella sua dimensione parmenidea d’infima purità invertita, che non possono darne nessuna ragione, tanto meno nel verso di un preteso progresso.
Dunque Iddio Altissimo, ne sia esaltata la lode, dunque la catena discendente delle sue processioni ad extra, dunque quella Luce Prima che si riflette di centro in centro di ogni mondo creato, identificandoselo esemplarmente, sino alla dimensione concreta e corporea di questo nostro basso mondo, suscettibile di un’identificazione personale che la renda operativa quanto a noi, nella sua dimensione giuridica che, lungi da mera esteriorità, è il culmine estremo dei quattro viaggi dell’intelletto trascendente.
Laonde il moltiplicarsi suddetto di queste produzioni sarà dapprima un puro riverberarsi di distinzioni identiche, affatto scevre di non essere, ma infinitamente sopravanzate dall’Essenza Suprema nella Sua Infinità e Semplicità, quindi separate da una progressiva identificazione al nulla, attestata dai massimi sapienti. Sino a quell’orlo dissolutivo che ne scinde la finità esemplare, facendola galleggiare in contingenza esistenziale sul “mare tenebrarum”, contraltare illusorio ed invertito del “Pelagus Perfectionum” di Scoto.
Dov’è da rimarcarsi che anche in Platone ed in Plotino è presente questa dottrina d’origine trascendente, in quanto non radicata in nessuna rappresentazione mondana, dell’Uno e del Bene, superiori entrambi, nella loro identità, sia all’intelletto, sia all’essere stesso, nella loro funzione esemplare e natura distintiva. Dicevamo dunque che di centro in centro la luce superna si appropria i centri che ne scaturiscono, sino al mondo dei corpi, dal cui centro addiviene infine al dominio assoluto sugli stessi mondi inferi.
Il Nunzio divino, come Gesù, la pace su di lui, e come immaginò anche Dante Alighieri, discende all’inferno prima d’ascendere al cielo della trascendenza ed ad Iddio Altissimo, eccelsa Ne sia la menzione, per ribadirne il dominio assoluto vicario, radicato nella sua scaturigine esistenziale, seppure dissolutiva. Ora dunque, in questo nostro basso mondo, chi saranno mai queste persone divine, alle quali Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, ne ha affidato il governo, con la Sua stessa produzione vicaria esemplare?
I nostri Intimi, così recita lo stesso Sacro Corano, sono Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, il Nunzio divino ed i Detentori dell’Ordine, IV, 59, sono il Suo Inviato, e quanti Gli si abbandonano e largiscono, V, 55, sono i congiunti per i quali ha prescritto l’amore, XLII, 23, sono quelli dei quali ha stabilito ab aeterno la purità assoluta, XXXIII, 33, sono quelli che Egli propone al mondo siccome prova inconcussa ed inconcussibile, III, 61. Versi tutti questi che è ben difficile negare si riferiscano, e che quasi unanimemente vengono riferiti alla Famiglia immacolata e benedetta delI’Inviato divino.
Egli è al di sopra di quanto gli ascrivono, eccettuati i Suoi Servi Puri per eccellenza, che Egli stesso s’ascrive, che sono i Suoi “Nomi Più Belli”, la scaturigine prima dei Nomi Essenziali, e ad un livello più alto, sono gli Stessi Nomi Essenziali. Quegli stessi che Egli pose intorno al Suo trono prima della creazione del mondo, sempre secondo le narrazioni, quelli che esaltò ab aeterno alla purità superna vicaria, preponendoli all’intero universo creato, sono quella luce e quell’intelligenza che creò dapprima da Sé, “Luce su luce”.
Tutto questo a riprova del fatto che le Genti della Casa, la Famiglia immacolata dell’Inviato d’Iddio Altissimo, su di loro la Sua pace e la Sua benedizione sempiterne, sono di livello in livello, a procedere dall’eminenza della loro identica distinzione, le scaturigini dell’Essenza Suprema. Sino a darsi forma sensibile in questo nostro basso mondo, con tutte le prerogative che ne conseguono, da attribuirsi per derivazione alla loro sussistenza corporea, vale a dire, per successiva scaturigine essenziale e Sovraessenziale.
Per chi non accetti il Sacro Corano, basterà far presente la necessità definita ed esplicita di una luogotenenza divina nel nostro mondo, sia giuridica, sia temporale, sia spirituale, sia esistenziale, da stabilirsi senza nessuna ambiguità e senza nessuna scissione. La qual cosa valga come argomento negativo, da riferirsi poi al circolo della Rivelazione, di cui si rifiuta o la necessità e la sussistenza, con i conseguenti assurdi di preteso progresso dal nulla, oppure il compimento, senza nessuna ragione sufficiente d’indefinitezza.
O se ne accetta un supposito qualsiasi, sempre senza ragione sufficiente, a prescindere dalla dottrina di cui sopra dell’“incarnazione”, e dell’unione personale. O se ne accetta il compimento con ragione, nel senso di una legge finale perfettiva ed inclusiva, includente trascendenza, morale, leggi pubbliche e sociali, potere temporale, che ne renda esplicita l’antecedenza virtuale, e manifesti quella trascendente, dovuta ad un mondo come il nostro, le cui condizioni regressive rendono necessario il compimento di ogni virtualità.
A prescindere dunque dall’illuminazione presenziale, vale a dire, dall’ispirazione del disvelamento iniziatico, ogni dubbio a questo medesimo riguardo sarà quello dell’argomentazione discorsiva e dell’intelligenza razionale, andando quivi risolto. Torniamo adesso, sotto questo stesso rispetto, al nostro autore, ed al Maestro Massimo, assorto nella contemplazione delle realtà superne, col loro fluire in questo nostro basso mondo, il tutto in rapporto a quanto si era or ora esposto della dottrina trascendente.
Le informazioni forniteci all’uopo da Sayyid Āštiyānī (1), per chi non abbia letto le opere di Ibn Arabi, del tutto oppure in parte, sono fondamentali, potendo essere per alcuni addirittura sconcertanti. Il fatto è che questi afferma testualmente nelle Rivelazioni Meccane, citiamo qui dal nostro autore: “non v’è di più vicino a Lui (Iddio Altissimo), ricevendone lo splendore, che la realtà di Muhammad, detta Intelletto (Primo, od Agente), Signore del mondo completamente, primo palesamento nell’essere; essendo il più vicino a lui tra gli uomini Alì Ibn Abi Talib, quindi quanti sono il fiore del Vaticinio”.
Espressione questa certo inequivocabile. Inoltre sempre Sayyid Āštiyānī, nella sua introduzione alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, riferisce tutta una serie di passi del Maestro Massimo, sommo nella contemplazione, tratti dalle Rivelazioni Meccane, nei quali esalta il rango e la funzione delle Genti della Casa, della Famiglia immacolata di Muhammad, benedica Iddio Altissimo lui e la sua Famiglia, al di sopra d’ogni altro, di tutti e di tutto, cardini del mondo, dell’umanità, e in primo luogo della Comunità dei Credenti.
Dove riferisce solo alle Genti della Dimora del Vaticinio, non anche, oppure addirittura esclusivamente alle mogli del Nunzio divino, come fanno taluni che ignorano disinvoltamente le regole più elementari della lingua araba, sovente la loro stessa lingua madre, vale a dire il genere maschile invece che quello femminile che compare nel relativo verso coranico, la prerogativa della purità stabilita dal Sacro Corano. Riportando e commentando inoltre il detto dell’Inviato d’Iddio Altissimo per cui ”la Gente della Casa è un pegno per la mia Comunità”, attestandone l’intercessione quanto alla dimora nel fuoco.
Le genti della Casa, sempre ne riferiamo il dire, sono i puri e la purità stessa, quelli a cui Egli largisce solo purezza, sono gli Infallibili, i preservati, sono i cardini del mondo. Espressioni queste affatto inequivocabili, che fanno anche ci si possa chiedere, come fa il nostro autore, in conformità con quanto avevamo osservato in precedenza sulla loro funzione esclusiva a questo medesimo riguardo, come sia possibile riferire l’iniziazione ai segreti divini ad altri che a loro, ed ai loro fedeli seguaci, come fanno taluni gruppetti di sedicenti sufi.
Inoltre, per passare ad un altro autore e grande sapiente contemporaneo, l’Ayatullah Ĥasan Zāde Amolī, è assi significativo che egli riferisca, nel suo Commento alla Gemma della Sapienza Immacolata del Verbo di Fatima, che vuole essere un completamento dei Fuşūş, che Ibn Arabi attesta, nell’opera “Rivelazioni Meccane”, che il Mahdi, l’Atteso ben Guidato, che Iddio Altissimo ce ne affretti la gioia, è il figlio dell’Imam Hasan Askari, la pace su di lui. Essendo quindi egli vivente e presente al nostro mondo, sebbene occultato in attesa del suo palesamento.
Circostanza simile a quella per cui si è resa necessaria la riedizione del Murājaºaŧ, dato che le citazioni ivi contenute non corrispondevano più, non avendo trovato di meglio gli ambienti wahabiti al soldo della famiglia Saud, che Iddio la maledica e la sprofondi, che alterarne la numerazione e la suddivisione, per renderle irreperibili. Ora il fatto è che noi non ci troviamo più di fronte alle solite bestie wahabite e salafite, seppure coi loro vari travestimenti, con i loro agenti mandati ad addestrarsi dopo quelle saudite, nelle università inglesi, al soldo dei servizi segreti di sua maestà britannica, che Iddio paghi loro il fio.
Ci troviamo qui di fronte a gruppuscoli di sedicenti sufi, o inautentici o deviati, che pretendono di farla da più dei salafiti, alcuni di loro sostenuti, apertamente, altri nascostamente, ne siamo convinti, dai soldi sauditi. Tanto che con ardore fanatico degno di miglior causa, si sono dati ad aggredire ed insultare, senza nessun costrutto, i seguaci della Famiglia del Nunzio divino, accampando sovente come pretesto lo stesso Ibn Arabi, tacendo di quelli, della stessa consorteria, che invece tendono le tele di ragno dei loro sorrisi ingannatori. Per tacere delle sciocchezze su Muawia e Yazid, l’uno “compagno” infallibile del Nunzio divino, l’altro destinato al perdono divino nell’altro mondo, con la corona del Giardino sempiterno, tanto che sarebbe proibito maledirlo, addirittura!
Salvo poi pretendere che l’unica raccolta di detti validi sia il Šaĥīĥ di Buķārī, da non sottoporsi a nessun ulteriore accertamento, salvo pretendere che sia proibito trattare delle vicende successive alla morte dell’Inviato d’Iddio Altissimo, nella pretesa che le guerre ad essa successiva vedessero impegnati da entrambe le parti presunti suoi “Compagni”, riguardando inoltre questioni di deduzione giuridica, d’“ijtihād”, non la sua successione, da sottrarsi così alla šarºiyyaħ, alla Legge Rivelata, che non includerebbe dunque il tutto, lasciando aperte le brecce della pluralità e della mondanizzazione.
Nella pretesa che la “sakīnaħ”, “la quiete divina” fatta scendere nel cuore dei seguaci di Muhammad, benedica, Iddio lui e la sua Famiglia immacolata, S.C., XLII, 4, sarebbe una maqām, e non uno ĥāl, una stazione permanente, non uno stato transeunte, com’è perspicuo dalle vicende di molti di detti compagni dopo la morte del Nunzio, a cominciare da quelli che a Ģadīr Ķum dissero “non ci faremo guidare da un moccioso”. Tanto da farne tanti capi sufi, non dei semplici credenti tenuti all’obbedienza al Nunzio ed alla sua Famiglia,
Tra cavilli fallaci, ed assunti arbitrari, con tanto d’insulti che farebbero impallidire un salafita. Salvo poi attestare la propria pretesa e presunta spiritualità ed “interiorità”, o piuttosto “interiorismo”, al quale fa da corrispettivo sovente la fratellanza con i più disgustosi sottoprodotti dissolutivi dell’Occidente contemporaneo, a prescindere da ogni rapporto strumentale e temporaneo, come fu invece per il Nunzio divino e per Alì, la pace su di loro e sui loro figli, potendosi dire al limite, amicizia sì, unità giammai.
Ora Sayyid Āštiyānī, in questo suo scritto prezioso, riporta alcuni passaggi di Ibn Arabi, in cui il Maestro Massimo sembrerebbe riprovare e condannare aspramente i seguaci della Famiglia immacolata del Nunzio divino. Sono gli stessi brani, dei quali fanno uso a piene mani i suddetti gruppuscoli, e persino gli ambienti wahabiti e sauditi, nel loro arzigogolare sfrontato. Ci troviamo dunque davanti ad una contraddizione, od opposizione. Come intenderla dunque? A quale delle sue due parti appigliarci? Ricordando che “Chi crede in Iddio, s’appiglia al sostegno più saldo, che non ha incrinature” (Sacro Corano: II, 256).
Ora una contraddizione, o anche un’opposizione, essendo quella, nel linguaggio della scolastica, l’affermare un particolare negando invece il generale, o viceversa, mentre la seconda consiste dell’affermazione e negazione di una generalità o particolarità, include due parti, una positiva, ed una negativa, A e non A. Non A può essere un B estraneo ad A, oppure potrà essere anche la semplice insussistenza stessa di A, il quale venga nel contempo e affermato e negato. Si parte dunque sempre da un’affermazione, da un essere.
Bisognerà in ogni caso intendersi per quel che concerne il termine dell’affermazione e della negazione, includendo questo elementi a volte positivi e reali, a volte invece meramente negativi. Così se si attesta l’identità del nulla, poi negandola, non si farà se non attestare di conseguenza l’identità autentica dell’essere, al cospetto di quella inautentica del nulla. È così dunque che si passerà sempre da un essere ad un non essere, assoluti o limitati che siano.
Donde si evince che la radice del “principio di contraddizione”, reputato erroneamente da Aristotele alcunché di negativo, e preso astrattamente di per sé stesso, come un principio originale, sarà in effetti quello positivo d’identità, vale a dire l’Uno ed il Bene di Platone e di Plotino, ovverosia la nostra “Waĥdaħ”, o “Aĥadiyyaħ”, l’“Identità”, od “Unità” di Ibn Arabi e degli altri Sapienti, con tutte le deduzioni varie nel senso proprio di questo termine, di “’trarre dall’alto verso il basso”, a procedere da questo medesimo principio.
Errore aristotelico prima, moderno e contemporaneo poi, è appunto questo di reputare come originario siffatto principio. Donde o l’indifferenza dell’affermare e del negare, vale a dire, dell’essere e del nulla stessi, com’è per esempio per Hegel, oppure la liceità dell’errore d’assimilazione, od “analogia”, in arabo “qiyās”, per il quale sarebbe lecito passare da un particolare ad un altro, a prescindere dall’identità anteriore eminente, di esso inclusiva ad un livello superiore di semplicità dei vari ordini sopraordinati dell’essere.
È questa la procedura seguita dalla giurisprudenza islamica, nella sua specie imamica, legittima e fondamentale, non spuria e derivata, esternata dapprima dall’Imam Jafar, la pace su di lui. La quale rifiuta l’assimilazione, od “analogia”, che significa in realtà “proporzione”, per cui si propone ed assimila, attribuendone il primo esempio a Satana, che si confrontò con Adamo, la pace su di lui, rifiutando di prosternarglisi, rifiutando le implicazioni di quella creazione ed efficienza divina, che egli riconosceva, ma manchevolmente.
A questa medesima stregua, si potrà ben affermare che ogni contraddizione sarà mera parvenza, coinvolgendo essa principialmente l’essere ed il nulla. Senza che quest’ultimo abbia nessuna consistenza al cospetto del primo. Anche per il fatto che, essendo l’essere creato composito, sarà possibile ravvisarvi aspetti distinti, ai quali ogni contraddizione potrà essere riferita, avendo questa in questo modo la sua attuazione solamente al livello eminente superno dell’esclusione del nulla puro da parte dell’essere puro, non altrove.
Dunque anche in Ibn Arabi possiamo affermare di trovarci al cospetto di una contraddizione apparente. Dall’altro canto, sarà inevitabile riconoscervi alcuni aspetti alquanto strani e sconvolgenti, preda ambita di chi è solito pescare nel torbido, che torbido non è se non per la sua ignoranza a malafede, non certo per l’eminenza di questo contemplativo sommo. Ovverosia alcuni passaggi delle sue opere, che sembrerebbero condannare i seguaci della Famiglia del Nunzio divino, proprio dopo d’avere stabilito l’eminenza di questa stessa Famiglia sulla Comunità dei Credenti, e sul creato tutto.
Vorremmo qui procedere per alternative, al fine di spiegare quest’apparente stranezza. La prima possibilità è che potrebbe trattarsi di mere interpolazioni, data la loro patente assurdità, da equipararsi all’omissione citata da Ĥasan Zāde Āmolī. Dicevamo che il principio a cui attenersi in casi siffatti, è quello dell’essere e dell’unità, che stanno inequivocabilmente, per quanto si è esposto, a detta dello stesso Ibn Arabi, dalla parte della Famiglia dell’Inviato divino, alla quale andrà riconosciuto il possesso, con linguaggio giuridico.
Supposizione questa nostra tutt’altro che peregrina, la quale richiederebbe inoltre tutta una serie di studi specializzati sui testi, a partire dagli originali, andando alle varie edizioni successive, da parte di esperti, che potrebbero peraltro portare, a prescindere dal principio suddetto, ad esiti tutt’altro che inconcussibili, data appunto la natura meramente materiale ed esperienziale di studi siffatti. Ritenendo dunque da parte nostra, in ogni circostanza, più sicuro, attenerci al principio d’ordine trascendente sopra esposto dell’unità e dell’essere.
Un’altra alternativa sarebbe quella che attribuisce ad Ibn Arabi l’ignoranza della realtà di fatto dei seguaci della Famiglia del Nunzio divino, questione questa che è in rapporto, come vedremo di seguito, con quella dei livelli sopraordinati d’inclusione della visione presenziale trascendente. A questa supposizione fa riferimento Sayyid Āštiyānī, osservando che a quel tempo non si era ancora sviluppata, nell’ambito dei seguaci delle Genti della Casa, quella conoscenza dottrinale, per lo meno esteriore, la quale avrebbe dato in seguito, specie da Molla Sadra in poi, il tesoro di sviluppi grandiosi ed ineguagliati.
Tanto che l’Iran della Rivoluzione Islamica, della quale fu appunto vessillifera la corrente sadriana, a dispetto delle smentite di malevoli, ignoranti, od imbecilli, come dicevamo dianzi, è il luogo al mondo dove più fioriscono gli studi su Ibn Arabi, al contrario di quel che accade a partire da quell’Egitto, che fu in passato uno dei centri più cospicui della conoscenza dottrinale ed attuativa. Come ci rammenta a questo proposito la figura somma d’Ibn Fāriď, contemporaneo d’Ibn Arabi, il cantore ineguagliato delle stazioni trascendenti del Nunzio divino, sovente menzionato dal nostro autore.
Gli Sciiti retti ed autentici di Alì, la pace su di lui, a quel tempo, dispersi e pressati com’erano dalle persecuzioni, come ricorda il nostro autore, erano tutti intenti a preservare il tesoro di quelle narrazioni delle Genti della Casa di Muhammad, benedica Iddio Altissimo lui e la sua Famiglia immacolata, che avrebbero poi consentito l’esternarsene della sapienza eminente originaria, interiore e trascendente. Molla Sadra, coi suoi precursori e successori, sarebbe venuto alcuni secoli dopo. Tanto che ci ritroveremmo apparentemente davanti ad una conoscenza dottrinale, se non attuativa, meramente sunnita.
Ibn Arabi non avrebbe avuto nessun contatto con loro, a dispetto della sua venerazione per la Famiglia dell’Inviato d’Iddio Altissimo, com’era anche per Ibn Fāriď, come osserva correttamente il nostro autore. Anzi sarebbe forse persino incappato in quei Nāsibī, in arabo ”imbroglioni”, oppure “torturatori”, i quali facevano di tutto per osteggiarli e calunniarli. Ora che una persona che goda di doni cosi eccelsi nel campo della “scientia visionis”, della conoscenza presenziale, e della sua esternazione discorsiva, non si sia accorto della realtà dei fatti, è a nostro modesto avviso alquanto inverosimile.
Sarà anche che la contemplazione non sarà necessariamente esaustiva, avendo essa vari livelli di trascendenza e d’inclusione, corrispondenti ai livelli dell’essere stesso cui s’identifica, essendo dunque sotto questo riguardo fallibile, non immune da errore, com’è invece per i Puri di Muhammad, che Iddio li benedica, tanto da sfatare la leggenda volgare per cui ad un uomo di conoscenza qualsivoglia sarebbe lecito legiferare su tutti e tutto. Ma ripetiamo questa inverosimiglianza su questioni di sommo momento.
Tutto questo è in effetti indiscutibile. È indiscutibile, che sarebbe assai difficile ritenere, che un approssimato di sommo rango quale Ibn Arabi non sarebbe stato al corrente della centralità delle Genti della Casa nell’edificio della Rivelazione, com’è che è stato mostrato inequivocabilmente. Che poi egli non sia stato a diretto contatto con i loro autentici seguaci, non spiegherebbe, in linea di principio, a dispetto di questa stessa fattualità, la durezza di certi suoi giudizi di condanna, almeno apparenti, di cui tratteremo più oltre.
Altra congettura, a questo medesimo proposito, è che si sia trattato di “dissimulazione”, in arabo “taqiyyaħ”, “timore”, “cautela”, questione peraltro concernente non solamente Ibn Arabi, ma inoltra altri sommi Sapienti, come ad esempio Rūmī. Il quale si dà, a dispetto della sua conoscenza, nel suo “Maŧnawī”, a descrivere ed esaltare i segni, della qualificazione divina di Omar, pur essendo impossibile non sia al corrente di certe gravi difficoltà che lo concernono, a dire dei suoi stessi seguaci, così come delle narrazioni sunnite.
Tanto che anche Ibn Arabi si sarebbe dato ad esaltare come “cardine”, o “polo” del suo tempo il sanguinario sovrano Abbasside Mutawakkil, nemico giurato, oltre che carnefice dei loro seguaci, di quelle Genti della Casa che Ibn Arabi riconosce essere al centro dell’universo creato. Per tacere di quello che gli ebbe a dire, come riferiremo più oltre, delle “insinuazioni sataniche” a questo medesimo riguardo, così come delle pretese forme sottili “porcine” di quei medesimi seguaci, anche se non a suo dire, come pure vedremo più avanti.
Per non dire della sua esaltazione reiterata dei cosiddetti “Califfi Rāšidūn”, nella fattispecie Abu Bakr, Omar, ed Oŧman, i Successori “Ben Guidati” del Nunzio divino, incomprensibile alla luce di quanto avevamo già detto prima, e considereremo ancora in seguito, dell’immediata scaturigine divina della Famiglia dell’Inviato d’Iddio Altissimo, che non lascia luogo, attestata che sia, a nessun altro centro d’autorità o di potere. Tutto questo potrebbe valere sino ad un certo punto, vale a dire, la “dissimulazione”, delle proprie dottrine.
Ma com’è che poi, contro l’attestazione unanime della Comunità dei Credenti, di cui si sarebbe così potuto attirare il biasimo, si dà ad asserire, contro ogni dissimulazione, che la vittima sacrificale richiesta da Iddio Altissimo ad Abramo sarebbe stato il secondo figlio Isacco, non il primo Ismaele, la pace su di loro? Contrariamente a quanto s’evince dal Sacro Corano, XXXVII, 101-112, che menzione quello, facendone il nome, dopo avere ricordato questo, ed il suo sacrificio, seppur non nominandolo esplicitamente?
Lo stesso asserto di Ebrei e Cristiani, d’accordo con quella prevaricazione giudaica, che avrebbe poi dato origine all’esclusivismo cristiano, con la svalutazione d’Ismaele, che la stessa Bibbia giudaica esalta, seppur posponendolo ad Isacco, la pace su di loro. Ora sarà anche che Ibn Arabi sarebbe ricollegato ad una catena iniziatica avente Gesù all’origine, ma sempre nella sua subordinazione alle Genti della Casa, sicché questo nulla giustifica. Né tantomeno egli avrebbe potuto ricevere nelle sue visioni un comando contrario alla Rivelazione, del tutto fallace e privo di ragione sufficiente.
Né a nulla vale il preteso ricollegamento di taluni sufi al Ķiďr, con la sua superiorità su Mosè e la sua Legge, la pace su di loro, il che li renderebbe superiori alla Legge Islamica, dato che questo non significa certo che egli sia superiore alla Famiglia del Nunzio divino, in quanto a lui ricollegata, ed alla sua Rivelazione. Come s’evince dalla narrazione in cui il Ķiďr svela sì ad Alì, la pace su di loro, il nome intimo “Huwa”, ma vendendo questa esternazione interpretata da Muhamma, Benedica Iddio lui e la sua Famiglia, che ne è dunque depositario del significato, oltre la lettera della narrazione.
Sayyid Āštiyānī nota inoltre una contraddizione di giudizio per quel che concerne la deduzione giuridica, da una parte condannata, per poi asserire invece che chi se ne farà carico, verrà in ogni caso premiato, anche in caso d’errore, quand’anche ancor più quando essa sia corretta. Osservando che, in ogni caso, non c’è nessun fondamento, da ricercarsi nella scrittura, nelle narrazioni, nella sana intelligenza, e nel consenso dei sapienti, per attestare la pretesa di taluni d’infallibilità d’Ibn Arabi, pur fatta salva la sua visione presenziale.
Un’altra spiegazione sarebbe peraltro disponibile, che rende conto anche del suddetto caso di pretesa infallibilità, spiegazione dovuta all’Imam Ķomeynī, e riportata da Bonoud. Perché la visione presenziale non è infallibile. Qaysari, nella sua introduzione ai Fuşūş, richiamandosi ad Ibn Arabi, ne riporta i livelli, a procedere da quelli dell’estinzione divina, e dell’ispirazione riservata agli Inviati. Solo queste sono infallibili, perché esse sono essere, essere puro trascendente, racchiuso in sé, senza scissioni, in semplice identità od unità, insieme d’identità semplici, prescindendo dall’Essenza.
Alle quali due stazioni corrispondono, al di qua di questi gradi, nel nostro verso esistenziale discendente, gradi di visione presenziale, nei quali il conoscente non sarà più identico al conosciuto, non essendo questo esaustivo. Dapprima articolandolo presenzialmente, senza forme interne soggettive, per poi immergersi in un’aura immaginale, la quale finisce con lo sfumare, alterare, e persino da ultimo occultare le forme trascendenti, oggetto della visione, che non verranno ad essere, in quest’ultimo caso, più presenziali.
La “scientia visionis” sarebbe dunque un fluire limitato, al livello delle essenze sovraformali, ma essenzialmente inalterato, dalla trascendenza unica dell’intelletto agente, in arabo “faººāl”, di forme esemplari di un mondo, che costituiscono l’intelletto attivo personale, in arabo “fāºil”, l’“agens” di Tommaso d’Aquino, per poi occultarsi in seno all’immaginalità individuale, che progressivamente le cela, riducendo l’intelligenza ad intelletto possibile, il quale è senza essere, ma solamente in attesa di compiersi, ovverosia di essere.
Prima ancora di quest’ultimo esito, la visione presenziale sarà turbata dalle immagini sottili, che danno luogo talvolta, mescolate a quelle reali, a rappresentazioni meramente immaginarie. Sarebbero dunque queste a renderla fallibile, ad impedire di vedere la cosa così com’è. Tanto che Ibn Arabi per parte sua, immerso in un’aura per così dire “cristica”, per via del suo suddetto ricollegamento iniziatico a Gesù, la pace su di lui, e per suo tramite all’Islam, finirebbe col vedere il sacrificio d’Isacco, non d’Ismaele, la pace su di loro.
Ed è da osservarsi a questo medesimo riguardo, che quella medesima “scientia visionis” che compie l’essenza limitata di là da sé nell’Essenza, cioè nell’Essere Divino, una volta che sia corroborata dal “lumen gloriae”, secondo Tommaso d’Aquino, creato od increato che sia, nozione che, secondo Asin Palcios, avrebbe le sue radici nella sapienza islamica, corrisponde alla nuda visione presenziale di una o più qualità divine, non necessariamente esaustiva, e necessariamente non esaustiva nei confronti dell’Essenza.
In una prospettiva che coincide solo in parte con quella cristiana e tomista, se quest’ultima la visione si riferirebbe in ogni caso, seppure non esaustivamente, all’Essenza Divina, riguardando invece, a nostro modesto avviso le essenze fisse sovraformali, distinte e separate. Il che non avviene, come osserva l’Imam Ķomeynī, per le qualità divine, corrispondendo dunque alla visione presenziale di una qualità e non di altre, riguardo alle quali sarebbe dunque fallibile, anche in questo caso che prescinde del tutto dall’aura immaginale.
Il che sarebbe appunto reso possibile dalla distinzione e separazione degli attributi divini. Si veda a questo proposito una preziosa nota di Mirza Qomšey al commento di Qaysarī ai Fuşūş, dove peraltro egli non chiarisce se si tratti a sua avviso delle determinatezze fisse, o degli attributi divini. Il che darebbe ragione anche, nella prospettiva religiosa comune, dell’esclusività riservata a Mosè ed a Gesù, la pace su di loro, giuridicamente all’uno, ed esistenzialmente all’altro, nel Giudaismo e nel Cristianesimo rispettivamente, a procedere dalla visione presenziale dei loro più grandi sapienti.
Il che spiegherebbe addirittura la visione del configurarsi trinitario, avulsa e dall’Essenza Suprema, così come da ulteriori configurazioni esaustive, com’è nel caso dei XIV Puri, che in definitiva la include in quella luce muhammadica che procede dall’Ipseità Divina. Il che darebbe origine anche alla dottrina dell’“incarnazione”, intesa che sia questa nel senso dell’avulsione della processione divina dai livelli intermediari dell’esistenza, dando luogo all’assunzione diretta della natura umana da parte di una persona divina.
E scendendo alla circumeffusione del dominio sottile nella visione presenziale, tutto questo spiegherebbe anche la visione di Gesù crocefisso, la pace su di lui, sofferente e piagato, la quale genererebbe, in un trasporsi di presenzialità, addirittura le piaghe carnali di certi santi cristiani, come Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, Padre Pio da Pietralcina. Così come la varie suddette pretese d’esclusività, e parimenti molti altri fatti apparentemente inspiegabili alla luce della realtà, sia di fatto, sia trascendente.
Spiegazione quella suddetta, affatto plausibile, che renderebbe conto anche del fatto, che per certi soggetti la visione d’Ibn Arabi viene ad essere perfettamente attigua a quella del Nunzio divino e dei suoi Puri Figli e Vicari, laddove per altri essa viene ad essere difettiva, quasi ad attestarne la fallibilità, anche sotto il riguardo superiore della contemplazione trascendente, che viene ad essere il suo dono eccelso. Ritenendo che questo nulla debba togliere, in ogni caso, alla sua sublimità di Maestro Massimo della contemplazione.
Ora sarebbe possibile, a nostro modesto avviso, una spiegazione ancora superiore, che peraltro nulla toglierebbe a quella precedente. Il fatto è che l’Identità Divina è profusiva a vari livelli, come avevamo già visto, il che ne spiega l’identità trascendente via via frammentata. Ad un certo livello dell’esistenza creata, le realtà diventano incomunicabili, come appunto spiega Molla Sadra, a prescindere dai livelli superiore dell’essere, ai quali gradi esse riferiscono la loro unità, che altrimenti sarebbe del tutto inesplicabile.
Sino ad assumere, almeno talune, le fattezze dell’errore e dell’illusione propriamente detta, nel loro allontanarsi dal centro del loro mondo, oltre che dal livello superiore dell’essere, nel loro contenuto inferiore d’essere, ovverosia nella loro debilitazione esistenziale, come ancora da Molla Sadra. Sino alle larve infernali infime indefinite, delle quali sussisterà ancora, seppure variamente, soltanto la negazione ed il risolversi di un contenuto positivo. Sarebbe dunque questa la nostra ulteriore chiave d’interpretazione di quanto sopra.
Ibn Arabi si sarebbe segretamente fatto carico di tutto questo, realizzandolo in vari ambiti della visione presenziale di cui era depositario, presentando dunque realtà ed errore, presentando dunque, a questa medesima stregua, sia pure anche per inversione, l’integralità stessa del Sigillo del Vaticinio. Laonde starebbe forse quivi la sua somma, autentica grandezza, nei suoi errori in senso composito, da riconoscersi per tali, da chi abbia discernimento, al cospetto della realtà, quasi una prova a cui debbano sottoporsi i Credenti.
Ora non verrebbe da ridere, a prima vista, a leggere che uno dei cosiddetti “rajabiyyūn”, la cui conoscenza trascendente sarebbe limitata appunto al mese di Rajab, nel vedere uno sciita di Alì, vi ravviserebbe una forma interna immaginale porcina? In virtù di quella “esagerazione” a pro di Alì, la pace su di lui, della quale lo stesso Ibn Arabi si sarebbe reso responsabile, la quale sarebbe poi all’origine di quella “cattiva opinione” nei confronti di Omar ed Abu Bakr, conseguenza necessaria, implicita od esplicita, di un assunto siffatto.
Tenuto anche conto che le varie forme sottili, i tanti corpi immaginali sopraordinati presenti nella persona umana, colte dalla visione di taluni uomini di conoscenza, come ad esempio Nejābat Šīrāzī, come ci è stato riferito dal nostro Maestro di conoscenza Karīm Ĥaqīqī, sono frutto di un continuo costruire, lungo nel tempo? Senza possibilità d’alterazioni originali, né tantomeno d’istantanee annichilazioni, conseguenza d’improbabili “pentimenti”, come appunto osserva correttamente il nostro autore.
Tanto che verrebbe il dubbio, dato che appunto un pentimento non avrebbe potuto annullare all’istante quella forma sottile, che non si sarebbe trattato se non del ritrarsi a mo’ di dissimulazione dinnanzi a minacce, dato che la sostanza, impermeabile a questa visione affatto estranea, avrebbe potuto funzionare da specchio riflettente impenetrabile per chi vedeva, tanto da vedervi la propria, non l’altrui forma porcina! Subito annichilita ad extra, da quell’apparente, subito pentimento, che avrebbe reso penetrabile la sostanza corrispettiva.
Così com’è anche strano, nell’altrui caso, che intelligenza e giustizia possano associarsi, o provenire, o produrre un errore degradante e fondamentale, a prescindere dalla buona fede dell’“ignorantia invincibilis”. È quello forse in realtà, che ha voluto insegnarci Ibn Arabi, con questa vicenda, che significativamente non riferiva alla propria persona, ma ad altri? Certo in ogni caso i dubbi restano, a prescindere dalla spiegazione di poc’anzi, nei confronti dell’errore, che egli avrebbe assunto come carico significante.
Nel caso di un altro passo della Futūĥāt, è rimarchevole in primo luogo, che vi si distingue tra “Sciiti” ed “Imamiti”. Dov’è da notarsi, che il termine “sciita” è ambiguo nel Sacro Corano: potendo essere inteso, o nel senso delle sette che fanno scempio della religione, VI, 159, o di quello dei seguaci d’Iddio Stesso, sia magnificato ed esaltato, com’è per Abramo, la pace su di lui, XXXVII, 83. Riguardando l’intromissione satanica l’atteggiamento prevaricatorio verso taluni compagni dell’Inviato, per il preteso amore per la sua Famiglia.
Il che è assolutamente al di fuori delle corrette dottrine imamite, contrario all’esempio di Alì e dei suoi successori essendo inoltre stato reiteratamente proibito dalle Guide religiose, checché ne pensino certi imbecilli, ignoranti ed in mala fede. Il fatto è che, come bene osserva Sayyid Āštianī, non solamente abbiamo quelle narrazioni fasulle foggiate, specialmente al tempo di Muawia, a pro dei compagni del Nunzio divino, gruppo indefinito ed evanescente, del quale ci aspetteremmo una lista, indirettamente contro la sua Famiglia,
Il fatto è che anche taluni Sciiti si sono dati purtroppo ad inventare impudentemente detti fasulli contro il gruppo suddetto. Tra i quali spiccano, nella fattispecie, quelle che ingiungono, autentica abominazione, di maledirne i primi tre Successori, al di là di ogni considerazione di legittimità, la cui verifica non potrà essere in nessun modo conculcata da chicchessia. Questo, dicevamo, contro l’esempio dello stesso Alì, e nel suo dire, e nel suo comportamento di fatto, che nessuno può pretendere di negare.
E se pure vi fa accenno nell’invocazione celebre di ºašūrā’, che viene fatta risalire all’Imam Al-Sajjād, la pace su di lui, non se ne fa nome per sua esplicita ingiunzione. Le false narrazioni hanno dunque finito col posporre Alì, la pace su di lui, ai suoi tre predecessori di fatto, non di diritto, finendo col mettere in discussione, da parte di Wahabiti e salafiti, ed persino di sufi deviati od inautentici, un testo come il Nahju-l-Balāġaħ, in precedenza unanimemente accettato dalla Comunità dei Credenti, come testimonia Tijani, senza nessun serio riscontro, neppure dal punto di vista meramente congetturale.
Ingiungendo di accettare supinamente le narrazioni di Buķārī, laddove invece si renderebbe necessario fossero sottoposte ad un continuo riesame, dato che non è affatto detto che il giudizio che le concerne sia definitivo. Tanto che per il Nahju-l-Balāġaħ esiste tutta una serie di prove, a partire dalla fondamentale cosiddetta “scienza dell’uomo”, che esamina l’attendibilità del compilatore, messa in ridicolo da certi imbecilli, che sarebbe difficile, anche se non impossibile, mettere in discussione, come spetta ai sapienti.
Per la seconda parte del passo precedente di Ibn Arabi, vi si fa riferimento a certi esagerati, corrispettivo speculare dei Nasibi nemici della Famiglia dell’Inviato, che addirittura giungerebbero a prendersela con Gabriele, il Nunzio divino, la pace su di loro, ed Iddio Stesso, ne sia esaltato l’Essere, che Egli ce ne guardi, gruppi da reputarsi recisamente estranei all’Islam. E c’è la questione, di quelli per cui “la Gente della Casa avrebbe la precedenza anche nelle vicende mondane”, citiamo testualmente il passaggio suddetto.
Ma questo sembrerebbe in contrasto con quanto asserito in precedenza dallo stesso Ibn Arabi. Dov’è dunque la condotta della Scia scorretta? Dicevamo in precedenza, che Ibn Arabi si fa carico, nella previa prospettiva trascendente, anche degli errori, il che invece che diminuire, esalterebbe la sua grandezza. Introducendo un sorta di “prova”, in arabo “fitnaħ”, per certi versi simile a quella con cui il Ķiďr mise alla prova Mosè, la pace su di loro. Tanto che alla fine in questo nostro caso, gli accusatori si ritroverebbero accusati.
A questo medesimo riguardo, lo stesso Ibn Arabi fornirebbe una sua spiegazione, la quale peraltro va vista alla luce degli assunti precedenti. Si tratta della dottrina, riferita da Sayyid Āštiyānī nella sua introduzione alla Mişbāĥ dell’Imam Ķomeynī, ed è la dottrina dei “cardini”, o “poli”, in arabo “Qutb”, e dei “singoli”, in arabo “afrād”, che non sarebbero sottoposti all’autorità ed al giudizio di quelli. A questo medesimo proposito, il nostro autore osserva correttamente, che al primo livello di processione dell’Identità essenziale si ha alcunché di quanto più possibile uno, come già dicevamo.
Tanto che, a questa medesima stregua, siffatte cesure nel mondo degli Intimi sarebbero assolutamente inintelligibili, del tutto prive di ragione sufficiente. Questo per ogni qualsiasi limite separativo, dato la loro onnicomprensività in quanto centri di ogni livello dell’esistenza. Dunque Muhammad, quindi Alì, la pace e la benedizione divina su di loro e sui loro Figli. Resterebbe solo da appurare, se Ibn Arabi abbia qui voluto intendere non un’opposizione di principio, che lederebbe la profusione originaria, ma invece un suo livello funzionale di fatto, nella fattispecie in questo nostro basso mondo.
Che renderebbe conto del fatto che, com’è perspiscuo nello svolgersi degli eventi, taluni non sarebbero sottoposti, almeno di diritto, al decreto ed al potere usurpato di altri, pur essendone l’autorità onnicomprensiva, di scaturigine direttamente divina. L’unità originale non sarebbe così essenzialmente prevaricata, ma renderebbe ragione del mondo dell’errore e dell’illusione, del quale avevamo detto in precedenza in modo affatto generale. Com’èbbe a dire Zaynab, la pace su di lei, al cospetto dell’usurpatore Yazid, che Iddio lo maledica e lo sprofondi, detentore della sovranità mondana.
Tanto che il medesimo Ibn Arabi, come riferisce il nostro autore nell’introduzione alla Mişbāĥ, ebbe significativamente a presentarsi talvolta come cardine, talora come “singolo”, a riprova della contingenza di fondo di questa dottrina, a prescindere dai suoi contenuti trascendenti, di fatto e di diritto, nella prossimità e nell’intimità divine, profondentisi subordinatamente a tutti i mondi, comprendenti errore ed illusione, come appunto dicevamo. Sarebbe dunque proprio questa, a nostro modesto avviso, la chiave di interpretazione degli asserti precedenti, altrimenti del tutto inintelligibili.
Quest’unità va peraltro intesa per gradi di processione dalla luce prima della plenitudine muhammadica, come osserva Ibn Arabi. Donde la fatuità di certi detti spuri, che addirittura equiparano al Nunzio Abu Bakr, quale quello ridicolo dei “cavalli da corsa”, dei quali ciascuno dovrebbe credere a quello che vince, o l’altro, per cui se vi fosse stato Nunzio dopo del Nunzio, sarebbe stato Omar. Violazione patente e del principio dell’unità processiva, e dei versi coranici, come quello della luce, che procede dalla Luce Suprema, alla prima muhammadica in senso proprio, alle case dei Puri, Devoti in senso eminente.
Per non dire di altri narrazioni spurie, sovente distorsioni od aggiunte a detti genuini, come quello che fa dei Tre le mura di quella città della sapienza muhammadica di cui Alì, la pace su di lui è la porta, senza rammentarsi, che i muri separano amici e nemici, le porte accolgono invece gli uni per respingere gli altri. O come quella per cui l’Inviato avrebbe nominato Abu Bakr responsabile della Comunità, caricatura di quella per cui Omar impedì che il Nunzio desse le direttive per la sua successione, o quella dell’intimità con lui di Abu Bakr, caricatura di quelle che concernono Alì, la pace su di lui.
Narrazioni queste tutte dovute a bugiardi conclamati, oppure a mercanti di detti, personaggi talvolta riprovati dagli stessi tre predecessori di Alì, la pace su di lui. Detti che vennero comprati a peso d’oro da Muºāwiaħ, che ne favorì inoltre la diffusione a suo pro, per i particolari del quale argomento, rimandiamo alla discussione minuta che ne viene fatta dal nostro autore nel testo in questione, così come alle notizie riportata da Tabatabai nel suo “La Scia nell’Islam”.
Anche qui dunque ci permetteremo di osservare, com’è che Ibn Arabi si sia fatto carico, per volere divino, dell’errore, ma riportandolo in questa sua guisa, che andrebbe così intesa nel suo ambito subordinato, non trascendente. Quantunque l’osservazione di Sayyid Ăštiyānī sia affatto corretta sotto il riguardo della contingenza, rispetto per nulla a sé stante, non separabile da quello della trascendenza, nella sua identificazione eminente degli ambiti inferiori.
Abbiamo quindi avuto modo di vedere, come questa preziosa introduzione del nostro autore, non sappiamo se tradotta in lingue occidentali, ci auguriamo senza essere stata vittima della barbara grossolanità riduttiva di quella inglese, riporti al loro giusto luogo le varie questioni che si sono poste nei confronti del Maestro Massimo. Sia dei suoi detrattori, sia di quanti ne alterano la figura, facendone un simulacro dalle fattezze grottesche, al servizio della propaganda di quei sedicenti sufi, alimentati dall’oro infernale della famiglia Saud, che Iddio la maledica e la sprofondi, anch’essi loro mancipi.
Figura massima la sua in effetti, potremmo ben dire più divina che umana, nel suo essere stato capace, o meglio, nell’essergliene stato fatto dono, di elevarsi quanto pochi altri alla contemplazione delle realtà divine, largita tramite l’intercessione del Nunzio divino e dei suoi Vicari, e la sublime purezza trascendente di Fatima, la pace su tutti quanti loro. Sino a darne conto ad un’umanità immersa nelle tenebre dell’errore, a dispetto della luce del Sigillo della Rivelazione, ed a farne carico ai suoi successori nel dominio contemplativo.
Od anche nell’esservi stato esaltato quanto nessun altro, nel suo essere esclusivamente, siccome dicevamo, non pensatore, non ragionatore, non compilatore, non ricercatore, ma uomo d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, depositario dei suoi segreti, in una guisa palese, ed in una guisa occulta. Tanto che ad Egli, nella profusione dei Suoi doni, ed all’intercessione dei Suoi Intimi, rendiamo grazie anche di questa gemma preziosissima ed incommensurabile, di sommo ausilio sulle vie dell’ascesa a Lui.
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Note
Footnotes
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Seyyed Jalaluddin Ashtiyani venne definito dall’orientalista francese H. Corbin come “Molla Sadra redivivus” [Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano, 1991, p. 367], e sappiamo la profonda ammirazione e amore che l’orientalista francese nutriva per il grande gnostico e filosofo sciita dell’epoca safavide. Studente dell’Imam Khomeyni, che considerava “il sigillo dei filosofi e degli gnostici della nostra epoca”, Seyyed Ashtiyani collaborò con H.Corbin all’imponente opera “Anthologie des philosophes iraniens depuis le XVII siècle jusqu’a nos journs”. Egli aveva in programma di dedicare gran parte del sesto volume di questa opera unica proprio all’Imam Khomeyni. Profondo studioso e conoscitore di Ibn Arabi e Molla Sadra, ha curato e commentato anche alcune opere dell’Imam Khomeyni. (N.d.E.) ↩