di Ruhollah Roberto Arcadi.
Nel Nome d’Iddio Altissimo
La nostra intenzione è di recensire, in queste nostre poche pagine di scrittura, un tanto breve e conciso, quanto interessante e denso testo pubblicato oramai moti anni or sono dalle famose e perseguitate Edizioni di Ar, il cui contenuto pregevole era ritornato tanto ripetutamente quanto insistentemente alla nostra attenzione, nel corso delle nostre varie peregrinazioni culturali. Ispirando anche in parte gli assunti sulla pretesa “scienza” moderna e contemporanea di alcuni dei nostri scritti, e ci scusiamo in questa sede di dovere citare immeritatamente e apparentemente senza modestia noi stessi.
Il testo suddetto consta dunque di due sezioni, essendo la prima un’introduzione di Silvio Waldner, ne ignoriamo la nazionalità, autore a noi ignoto, non sappiamo se di stirpe germanica, ma nondimeno assai profondo, estremamente esteso nel suo scritto, a dispetto della sua concisione. Che in un certo senso porta alla sua destinazione il pensiero dell’autore propriamente detto del libro, vale a dire di Bruno Thuring, che si adoperò nella prima metà del secolo trascorso, nella Germania del governo nazionalsocialista, contro le vedute dello Einstein, con gli esiti noti dovuti al precipitare degli eventi bellici, vale a dire, a ragioni che nulla hanno di scientifico.
L’introduzione di Waldner mette da un lato in rilievo le magagne delle pretese spropositate dello Einstein, ed in secondo luogo, più in generale, procede ad alcune interessanti riflessioni sul modo surrettizio e truffaldino di imposizione della cosiddetta “scienza”, ed aggiungiamo noi, non solamente di quella, nel nostro mondo contemporaneo, e non solamente in questo, a dispetto della precedente non disponibilità del potere pubblico, aggiungiamo ancora noi. Imposizione da parte dei detentori dei poteri pubblici, produttivi, e finanziari, ed in precedenza, di quanti erano riusciti ad accaparrarsi il potere culturale.
Dunque dicevamo che il Waldner, per incominciare da lui, come esige la struttura stessa del testo in questione, la sua conformazione, dà inizio alla sua trattazione col mettere subito in discussione il “mostro sacro” Einstein, del tutto insuscettibile, per mero partito preso, di ogni riflessione che non sia di semplice accettazione supina, per non dire di ogni messa in discussione che accenni ad un sia pur minimo rifiuto, questo per ragioni che nulla hanno di razionale e di scientifico. Vale la pena, a questo medesimo riguardo, aggiungere una riflessione riferentesi ad una nostra precedente esperienza personale.
Il fatto è che ci rammentiamo di come, molti anni or sono, al tempo della nostra prima ed ingenua giovinezza, affascinati dalle dottrine dello Einstein, che sembravano volessero ed addirittura potessero superare il nostro mondo corporeo, com’era, e sempre sarebbe stato nostra esigenza primaria, ci affaticammo invano nei vari centri librari dei vari istituti della città di Milano, dove allora vivevamo, ed in particolare del suo Politecnico, dove studiavamo, a ritrovare una qualche traccia degli articoli originali che esposero a suo tempo le due branche, la particolare e la generale, della relatività einsteniana.
Testi che potevano essere a noi accessibili, se presumibilmente in inglese, la lingua barbara dell’internazionale framassonica, perché allora non avevamo ancora appreso la nobile lingua germanica, ma del tutto introvabili, almeno allora, a dispetto di tutte le nostre ricerche. Non sappiamo se questo avvenisse per una qualche sorte avversa, o per nostra incapacità personale, oppure per un’omissione preventivamente disposta dalla classe dominante quanto al campo delle scienze moderne e contemporanee, e noi ci permettiamo personalmente di propendere per la terza delle tre suddette eventualità.
Fatto sta, che in ogni caso quelle origini erano un segreto affatto inattingibile, almeno per una persona comune, senza poteri mondani, quale io ero, e sono tuttora. Né il famigerato Politecnico di Milano, oggi fatto assurgere dai poteri forti che governano malamente quella città disgraziata, assieme alla città stessa, ai vertici della notorietà positiva, della lode, e non del biasimo, come invece meriterebbe, né gli altri istituiti sedicenti “scientifici”, come l’attigua Facoltà di Fisica dell’Università di Milano, nulla ne sapevano, se bene rammentiamo. Questa essendo la realtà dei fatti, non altra.
Tutto quello che ne restava assai modestamente, era dato di raccattarlo solamente da qualche pagina di un qualche capitoletto del testo di meccanica razionale e di fisica del primo anno, con l’appendice, nel testo di elettricità del secondo anno, della pretesa derivazione relativistica dei campi magnetici, i quali argomenti riguardavano inoltre tutti quanti la sola relatività speciale, con tanto di equazioni di Lorentz e di esperimento di Michelson Morlei, quest’ultimo peraltro fondamentale a questo medesimo riguardo. Trattazione nel suo complesso alquanto limitata ed insoddisfacente.
Della relatività generale invece quasi nulla, non fosse stato per una trattazione degli spazi curvi in un nostro testo, personale e non ufficiale, di calcolo tensoriale, con le elaborazioni numeriche e le equazioni dell’ebreo Tullio Levi Civita, che visse ed operò negli anni del ventennio fascista, a dispetto delle leggi e delle pretese persecuzioni razziali, già Professore di meccanica razionale all’Università di Roma, dove aveva studiato e si era laureato in ingegneria mio padre. Essendo peraltro a lui, e non certo allo Einstein, che spetta la dottrina degli spazi curvi, che fu da lui usata nella relatività generale.
In definitiva, si trattava di un difetto di origini affatto inusitato e sorprendente, la qual cosa rendeva siffatte dottrine alquanto oscure ai miei occhi, come fossero state calate od imposte da qualcosa d’imponderabile ed occulto. Il medesimo discorso valendo anche per altre elucubrazioni numeriche contemporanee non einsteniane, come per la meccanica quantistica, in particolare per l’equazione di Schrodinger, peraltro non ebreo. Fu questa la prima circostanza che mi sorprese, pur non essendo ancora tale da suscitare i miei dubbi e da mettere in discussione i miei ardori di quel tempo.
Quello che è invece da mettere qui in rilievo, come fanno del resto correttamente sia il Waldner sia il Thuring, è la mancanza totale di messa in discussione, anzi addirittura l’assoluta indiscutibilità di dottrine, o meglio, di elucubrazioni siffatte, spacciate ed imposte come se fossero evidenti di per sé stesse, senza nessuna previa pezza giustificativa. E ci permettiamo per parte nostra di osservare inoltre, che non è certo questo il solo caso di pretesa e di presunta indiscutibilità di asserti che vengano imposti e spacciati agli ignoranti ed agli ingenui, ai nostri giorni, per assolutamente evidenti ed innegabili.
È assolutamente corretta, a questo medesimo riguardo, a nostro modesto avviso, l’affermazione del Waldner che, tra le troppe magagne di in un’età infelice ed oscura come la nostra, a dispetto delle sue mirabolanti pretese, pochissimi riflettono con la propria testa, a differenza di quanto avveniva nell’antichità e nel medioevo. La qual cosa, ci permettiamo di aggiungere noi, contrariamemente alla vulgata framassonica ed illuminista, ed alla leggenda dell’”ipse dixit”, della quale da nessuna parte non è mai stato dato di trovare nessuna traccia, contrariamente alle pretese dei moderni e contemporanei.
Lo stesso Tommaso d’Aquino citava sì Aristotele, con altre autorità, tra cui Avicenna, ma per procedere ad una dimostrazione rigorosa, tutt’atro che l’”ipse dixit” spacciato. Dicevamo dunque, che questo non è certo il solo caso. Ampliando il campo dalla pretesa “scienza” moderna, cercheremo di vedere qui in seguito di che cosa si tratti in effetti, si trasborda negli ambiti della cosa pubblica, della produzione materiale, della sedicente “democrazia”, ovverosia della pretesa volontà popolare, sino all’ambito trascendente, o “metafisico”, per usare il termine franco gallico della vulgata dell’ignoranza corrente.
Dal “New Age” dunque, la ridicola religione californiana fai da te, o dalle improbabili volgarizzazioni di un buddismo affatto nichilista, e prettamente materiale, e telluricamente sottile. Oppure dalle pretese esilaranti dei vari falsi indù addottrinati dai framassoni inglesi colonizzatori, e oppressori, e soppiantatori, le quali la fanno tutte quante finita, o piuttosto lo pretendono e lo tentano, con lo statuto irradiativo discendente, e con quello significativo ascendente del mondo creato, sarà tutto un susseguirsi di assunti ingiustificati, e di realtà pretese innegabili, spacciate come evidenti per mero partito preso.
Certo sarà possibile individuare una qualche distinzione e graduazione a questo medesimo riguardo, rilevando com’è che taluni assunti arbitrari, e talune di queste realtà insussistenti di per sé stesse, diano luogo ad alcunché di imposto per innegabile all’insieme della generalità umana, nel senso del per lo più. Nel mentre ve ne sono altre invece, assai più limitate numericamente, i quali si rifanno a vari gruppetti di ardenti seguaci di qualcuno o di qualcosa, quantunque la loro influenza venga ad essere in definitiva tutt’altro che trascurabile, anzi essendo tutto il contrario, in virtù dei loro ispiratori.
È il caso dei cosiddetti “poteri forti”, dei quali diremo più oltre. Tornando dunque a quello che è l’oggetto, almeno per ora, della nostra indagine, con riferimento al testo suddetto, sarà appurato come indubbiamente taluni assunti vengano continuamente propinati ai più per indiscutibili, ed ovvi. Basterà chiedere a qualcuno, tanto per fare un esempio, perché mai la terra dovrebbe essere in movimento, quantunque una delle possibili interpretazioni dell’esperimento celebre di Michelson Morlei potrebbe essere, come osservato in una nota del testo del Waldner, quella della sua immobilità.
Si risponderà a questo medesimo riguardo, che “lo dice la “scienza” indubitabilmente, senza che ne venga dato, o che se ne abbia a ricercare nessun fondamento giustificativo. La qual cosa peraltro nulla avrà a che vedere, con la fisima della relativizzazione tutta moderna e contemporanea di mettere tutto in discussione. Perché in primo luogo, andrà visto che cosa vada e venga messo in discussione, e che cosa invece no. La cosa avendo qui a che vedere con la ricerca di un fondamento, vale a dire, di un principio intellettuale ed esistenziale dal quale l’assunto possa essere derivato e stabilito.
Vale a dire, trattandosi di un considerare radicato da ultimo in una visione presenziale, ovverosia esistenzialmente superiore, assunta siccome tale e traslata alle sue conseguenze inevitabili. La quale certamente nulla avrà a che vedere con l’invenzione grottesca della pretesa infallibilità imperturbabile ed inconculcabile dell’”ipse dixit”, questo sì “scientifico” e “democratico”, della presunta e pretesa volontà popolare, spacciata per tale quando non è tale, una volta che essa venga indotta, senza essere per nulla spontanea, alla quale si traslano, suscitata che essa sia, assunti siffatti del tutto arbitrari.
Avendo il tutto a che vedere, oltre che col considerare e con l’argomentare assunti da ultimo presenzialmente, anche con un’autorità reale, niente affatto fittizia, od arbitraria, od imposta, la quale del resto coincide del tutto con il primo principio della deduzione intellettuale reale, non certo con un’argomentare radicato in un succedersi di petizioni di principio di fatto estranee l’una all’altra. Essendo quello il principio dell’unità dell’essere con le sue varie partizioni formali di principio, donde deriveranno deduttivamente le effettualità varie con i loro gruppi e le loro distinzioni interne.
Vale a dire, quello che viene messo in discussione ai nostri giorni, non sarà mai la discussione stessa, in quanto arbitraria ed infondata, quanto all’eminenza reale ed alle conseguenze necessarie, vale a dire, per un altro verso, quegli assunti pretesi primari del tutto ingiustificati di cui sopra. Essendo peraltro siffatta discussione, in definitiva, un negare per petizione di principio, niente affatto e giammai un argomentare che sia fondato su di un principio esistenziale valido. Si tratterà, in questo modo, di una relatività, come mancanza di principi validi, che ricusa di mettere in discussione sé stessa.
Questa indiscutibilità la fa dunque a pugni, quantunque apparentemente la contrasti, con quella libidine del discutere, vezzo affatto contemporaneo correttamente messo in rilievo dal Thuring, propria peraltro, anche se non esclusivamente, aggiungiamo noi, di elementi ebraici, anzi, più correttamente, talmudici come lo Einstein, a dispetto della loro completa indifferenza in materia di fede. Le ovvietà pretese, assunte per buone per partito preso, vengono dunque date una volta per tutte, senza essere messe in discussione, com’è che rilevano giustamente entrambi questi nostri due autori.
Ora dicevamo dianzi, tutte queste ovvietà arbitrarie avranno a che vedere con un indebolimento ed un oscuramento dell’intelligenza, vale a dire del principio intellettuale primario, il quale finisce in questo modo col lasciare a sé stessa una razionalità velleitariamente assunta siccome del tutto priva di principio, fasulla ed in definitiva affatto falsificante, a conti fatti. Essendo affatto arbitrario, fasullo, ed inconsistente, che la ragione debba essere assunta siccome un principio, siccome alcunché di primordiale e di sopraordinato, a meno che non si voglia giocare con i vocaboli e col loro uso.
Checché ne dicano i pensatori tedeschi da Kant alla corrente idealista, assunta che sia da loro la ragione siccome “vernunft”, vale a dire, con un vocabolo che in quella lingua ha a che vedere con la significazione di un procedere reiterato, “nunft”, assunto a modo di principio, vale a dire, di un principio, ovverosia siccome “ver”, supaordinato all’íntelletto fisso, o “verstand”. Derivando peraltro la cosa dalla completa ignoranza da parte loro degli assunti della scolastica genuina, sino a quella tarda del Suarez, ma eccezion fatta per quella protestante, spuria ed arbitraria, del Wolf, sulla quale il Kant ha tentato di fondare le sue costruzioni mentali né dimostrate, né evidenti.
La razionalità ridotta a principio di per sé stessa fa astrazione dal suo principio superiore, al quale va invece subordinata, essendo così non correttamente discorsiva, quantunque tal modo possa essere espressa, e neppure argomentativa. Essendo il discorso corretto, con il legame dell’argomentare, fondato non su un’esteriorità di elementi di pari livello, ma bensì su un qualcosa di ovvio ed assentito di rango superiore, la cui negazione non potrà se non produrlo, com’è per la negazione dell’essere, la cui negazione null’altro viene a produrre e ad asseverare se non l’essere stesso.
Quest’ovvietà asserita ed intuita previamente avendo a sua volta radice in una reduplicazione esistenziale, la quale culmina dapprima in una corrispondenza sostanziale superna solo formalmente distinta, e da ultimo, in quell’Unità Suprema dell’Identità Essenziale d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, nella quale le stesse formalità si risolvono identicamente, sia pur essendoVi contenute eminentemente. Essendo dunque questo il segreto e la matura ultima della conoscenza, e della sua identità esistenziale, a qualsivoglia suo livello, anche depravato e distorto che esso sia.
È in questo principio intellettuale dunque, che andrà ricercata la ragione dell’indiscutibile asserto dell’autore della nostra introduzione, per cui nell’età antica, così come anche nel vituperato Medioevo, gli uomini, o piuttosto, più in particolare, quelli eminenti, incaricati della deduzione intellettuale, ragionavano con la propria testa, affidandosi alla funzione superiore dell’intelletto, invece di metterla all’ammasso, come avviene purtroppo ai nostri giorni da parte dei più. Senza nessun immaginario preteso “ipse dixit”, fattosi valere assi più tardi, e di recente. Nulla di tutto questo.
Giustamente questo nostro primo autore mette in rilievo la macchina contemporanea del consenso, e nella fattispecie la procedura della creazione artificiale del sommo ingegno, proposta adesso non più da un’autorità spirituale legittima, o dall’annesso legittimo potere temporale ad essa subordinata, almeno in linea di principio. Questo a prescindere dalle difficoltà insite nella separazione delle persone detentrici di quell’autorità e di quel potere, vale a dire fatta salva la forma distintiva particolare che in Occidente, così come in buona parte dello stesso Oriente musulmano, quell’articolazione verrà ad assumere, scindendola dal suo detentore superno.
Macchina del consenso che, procedendo dalla suddetta obnubilazione intellettuale, si spinge sino all’uso di tutto un insieme di dati depositati ai nostri giorni negli archivi elettronici, come correttamente osservato dal Waldner. Dati di per sé stessi insignificanti, ma posti inevitabilmente nelle mani dei vari addetti ai lavori, o pretesi tali, tutti invariabilmente al soldo di quei soliti, celebri poteri forti, che qui, per ovvie ragioni per chi abbia occhi per vedere, preferiamo definire più correttamente “poteri inferi”, per fare loro assumere il significato che più loro aggrada. Facendone quei loro detentori un uso conforme, com’è per i servitori prezzolati di ogni potere usurpatore.
Ed è qui che viene peraltro a proporsi una questione certo di sommo momento da parte di questo nostro primo autore. Con elegante ed efficace vocabolario germanico, ci si viene qui a dire di “sosein, di “dasein”, e di “ersatz”, vale a dire, con una maggiore intelligibilità per noi latini, il fatto proposto, l’esistente, ed il risultato, vale a dire, in altri termini, l’essere così, l’essere là, o presenza di fatto, e da ultimo, quello che consegue. Essendo questo discorso dunque un elemento affatto fondamentale di tutta questa sua presente trattazione, sulla quale intendiamo peraltro qui soffermarci alquanto, per capire meglio le cose, richiedendo il nostro argomento una trattazione generale.
Quello che il nostro primo autore vuole qui farci intendere, è il fatto della progressiva obnubilazione, assieme all’intelletto che se ne avvale, anche di tutto quell’insieme di percezioni immediate, della sensibilità, primaria quoad nos, come egli osserva correttamente. Percezioni che il Sacro Corano definisce i segni d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, posti negli orizzonti del mondo ed in noi stessi, il primo gradino dell’ascesa alla conoscenza ed all’essere superiore. Questi segni vengono dunque sostituiti con tutto un insieme di entità numeriche immaginarie ed insignificanti, numeri con le relative equazioni, meccanismi che fanno impossibile ogni riflettere.
Ora quello che andrebbe qui invece assunto siccome un principio primario, succedaneo a quello supremo del principio d’identità, è l’equivalenza, della quale avevamo detto sopra, della conoscenza con l’essere, già preconizzato da Parmenide, quindi ripreso da Plotino sulla scorta di Platone, che a sua volta riprende e comprende Parmenide, a differenza di Aristotele. Diciamo qui di evidenze affatto primarie, eminentemente intellettuali, come le definisce Tommaso d’Aquino, e non di quelle secondarie derivate e distintive, com’è invece per il noto principio di non contraddizione aristotelico.
Il principio di contraddizione non è affatto primario, ma presuppone invece per parte sua il principio d’identità, al quale non può non ricondursi, e senza del quale sarebbe affatto inintelligibile, perché la sua impossibilità, vale a dire, quella della contraddizione, presuppone il fondamento dell’identità, e null’altro. Ora l’equivalenza della conoscenza e dell’essere, altro non sarà se non la loro identità primaria, donde un tertium non datur nel senso del principio di contraddizione, contrariamente alle pretese di Aristotele, secondo gli assunti di Platone e Plotino, i quali si rifanno a loro volta a Parmenide.
Parmenide dunque, riportato da Plotino, recita che “pensare ed essere sono il medesimo”, e ci riferiamo quivi ad un pensare primario e trascendente, senza nessuna divagazione mentale od immaginazione. Dove il “noein” ellenico, vale a dire, l’atto dell’intelletto, identico all’”einai”, all’essere, avrà il senso medesimo del latino “comprehendere”, e dell’italiano comprendere, nel senso di assumere in sé identicamente ed eminentemente, ad un livello semplice e superiore. Vale a dire, nel senso di ricondursi da una molteplicità ad un’unità, così come viceversa da un’unità ad una molteplicità, come recita Platone.
Quello che quivi ci preme di rilevare, è che la scienza, secondo i sui gradi di realtà, dovrà essere scienza dell’essere, e di null’altro, perché nulla vi è al di là dell’essere, vale a dire, che essa sarà dell’Essere Primario e delle sue varie derivazioni. Sicché la scienza dovrà essere tale in primo luogo d’Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, dei Suoi Attributi, se non dell’Essenza, quindi delle sue molte derivazioni, con varie intensità esistenziali, assunte nel senso dell’arco ascendente che a Lui conduce, corrispettivo dell’arco della discesa creativa. Una scienza del nulla è del tutto inintelligibile, non ha nessun senso.
Essa dovrà essere dunque riferita all’Essere Supremo platonico, vale a dire, ad Iddio Stesso, sia benedetto e glorificato, e quindi a quell’”eteron” sempre di Platone, all’”altro” del suo Sofista, distinto e dall’Essere Puro, e da nulla puro, dall’”enantion” quest’ultimo, vale a dire il contrario, “altro” che da Lui procede ed a Lui ascende in Lui essendo radicato, nei due archi dell’esistenza universale. Ma si obietterà certo a questo punto, che tutta quanta l’esistenza è così segno di Lui. Se dunque pretenderemo di contrapporre in questo modo a dei segni dei non segni, o ci riferiremo al nulla assoluto, oppure a degli altri segni inevitabilmente, anch’essi conoscibili.
Sulla qual cosa certamente conveniamo. Ma il fatto è che qui ci troviamo di fronte a due sorte di realtà, ad una realtà immediata e primaria, e ad una secondaria e derivata. Ad una realtà primaria, vale a dire tale in primo luogo, e ad una realtà derivata, tale in secondo luogo. La quale ultima realtà potrà assumere a sua volta le due forme dell’immaginazione, e dell’illusione e dell’errore, vale a dire, nel secondo caso alcunché di derivato sì, ma primariamente insussistente, prodotto o di aggregazioni varie, oppure di negazione, ed alcunché invece di semplicemente astratto invece dalla sua sussistenza primaria nel primo caso, e quindi variamente modificato, ma non alterato, le “primae” e le “secundae intentiones” dei quali dicevano gli scolastici.
Preferiamo per ora sorvolare sulla vexata quaestio, quanto ai moderni, della presunta idealità del reale, riferendoci alla derivazione universale dal Principio Primo, con tutte le sue conseguenze derivate variamente definite, in un senso o nell’altro dell’esistenza, siccome soggetto senziente, oppure come oggetto sentito. Ma il fatto è che ci troviamo qui di fronte, a procedere da Galileo, ed ancor più da Newton, a tutto un insieme di elaborazioni affatto immaginarie, astratte ed immaginali, e di per sé insussistenti, in senso meramente numerico per il secondo, od anche astrattamente figurato per il primo.
Dov’è appunto da osservarsi, che Galileo preferisce riferire le sue elucubrazioni alle figure astratte, nel mentre invece il Newton preferirà riferirsi a numeri astratti interpretabili figuratamene, com’è che sarà abitudine pressoché generale in seguito per quella gente. Ma questi numeri e queste figure, va qui messo in rilievo, sono di per sé del tutto insussistenti in natura, checché se ne abbia poi a pretendere e da costoro, e generalmente. Immaginazioni dunque, od illusioni, del tatto avulse da quella che dovrebbe invece essere una percezione immediata, non mentalmente modificata in quanto tale.
Le complesse procedure di derivazione del numero insegnate ai nostri giorni nelle università, esemplificate a suo tempo dalla dottrina numerica del Russel, peraltro amico intimo dello Einstein, come anche si sottolinea nel nostro testo, e nel pensiero e nelle opere, nulla tolgono a quell’evento primario eminentemente mentale che li costituisce originariamente in noi. Gli scolastici, vale la pena ripeterlo ancora, distinguevano tra le suddette “prime intentiones”, radicate in un esistente di per sé stesso, e non mentalmente modificate, e quelle “secundae intentiones”, “effictae intellectu”, più o meno modificate e prodotte invece dall’elaborazione mentale successiva.
Ora noi non potremo fare a meno in questa sede, con riferimento al nostro argomento, di riportare a quelle prime intenzioni l’insieme della sensibilità umana non modificata, né mentalmente né strumentalmente, anche a prescindere da quel retto giudizio che le dà quel significato che le compete, com’è nell’esempio noto del bastone visto piegato nell’acqua, o dell’elefante toccato dai ciechi, quanto ai quali starà a noi d’esprimere un giudizio valido. Mentre invece le seconde intenzioni saranno mere escogitazioni mentali insussistenti, essendo qui peraltro irrilevante che esse abbiano o non un fondamento nelle cose, data che sia la loro ineludibile natura derivata e fittizia finale.
Il numero non avrà dunque nessuna esistenza nella natura delle cose, essendo la figura astratta, oppure la numerazione astratta, ai loro vari livelli di complessità, un qualcosa od in parte, o del tutto arbitrario. Tutte le coincidenze che vorranno stabilirsi tra i due livelli di realtà, saranno sempre del tutto velleitarie. Ogni corrispondenza effettuale tra mente e cosa andrà riferita per parte sua, a procedere dalla corrispondenza esistenziale generale tra tutte le cose derivate e distinte, ad una doppia particolarità di fatto che non ne dimostrerà la coincidenza e la reciproca derivazione, o in un senso, oppure nell’altro, o dalla mente alla cosa, oppure viceversa, dalla cosa alla mente.
La tanto millantata validità sperimentale di quegli assunti numerici astratti altro non essendo se non un caso della corrispondenza esistenziale universale degli esseri, ognuno dei quali cela, quantunque non l’abbia sempre perspicuo, l’insieme di tutti gli altri, per la derivazione dal Principio Universale, vale a dire, da Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato. Laddove la corrispondenza locale nelle cose avrà a che vedere invece con la particolarità di questa corrispondenza, che la determina e la esplicita sotto il riguardo sensibile, esaltandola inoltre eminentemente sotto il riguardo intelligibile.
Dove va rilevato il principio esistenziale per il quale, nel succedersi dei due archi discendente ed ascendente dei livelli dell’essere, i livelli superiori conterranno eminentemente quelli inferiori, essendo questi ultimi immagini, vale a dire, rappresentazioni inadeguate di quelli superiori. Dunque il Principio Supremo contiene eminentemente e compendia tutta l’esistenza, la quale a sua volta Lo rappresenta variamente ed inadeguatamente nella Sua totalità. Il che peraltro sfata la sciocca leggenda contemporanea della cosiddetta “eteronomia” degli stati superiori dell’essere rispetto a quelli inferiori.
Detto tutto questo, sarà peraltro indiscutibile uno statuto ridotto degli enti immaginari rispetto al principio sentito, riferendosi essi enti immaginari pur sempre in una qualche misura ad un principio sussistente, ma senza avere sussistenza di per sé stessi. Sarà così dunque che, almeno in linea di principio, tutti gli enti verranno indubbiamente ad essere, a loro modo, segni d’Iddio Altissimo, sia benedetto e glorificato, ovverosia saranno sue profusioni e discese esistenziali, così come anche strumenti della via che mena a salire Lui, secondo il duplice arco suddetto dell’ascesa a Lui e della discesa da Lui.
Donde però Vi si riferirà solamente quegli che sia radicato nella scienza, di cui ci dice il Sacro Corano, che sia già giunto ai livelli superiori dell’essere. Mentre di contro, da un punto di vista operativo e non di principio, gli enti ridotti, vale a dire, le immaginazioni, le illusioni, gli errori, secondo una traiettoria discendente, in un modo simile agli esseri tellurici ed inferi, saranno partecipi di uno statuto di annichilazione progressiva, che farà sì che anch’esse si riferiscano sì al Principio, ma per il tramite di una negazione, o di una discesa ulteriore, e non direttamente ascendendovi, stando così le cose.
Questo perché, mentre i segni in un senso stretto e proprio saranno prodotti direttamente per il tramite dei livelli superiori dell’essere, i segni in senso lato ed improprio saranno invece nullificati progressivamente, solamente per il tramite di siffatta annichilazione rifacendosi al principio Creatore ed ai suoi mezzi successivi. Lande riferirsi a questi segni secondari, avrà in definitiva il medesimo senso che fare riferimento al nulla, quantunque relativamente, non in assoluto. Questo contro quello che dovrà essere invece lo statuto esistenziale della scienza in quanto reale, siccome scienza dell’essere.
E questo quantunque la cosa in assoluto, vale a dire, questa distinzione, non abbia senso. Il fatto è che, per chi venga ad essere radicato nella scienza, vale a dire nell’essere superno e Supremo produttivo, secondo i dettami stessi del Sacro Corano, tutto verrà ad essere segno d’Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, non solo la percezione immediata. Mentre per gli uomini comuni, la significazione trascendente andrà limitata in primo luogo al solo sentire sensibile, invece che alle produzioni mentali immaginali delle seconde intenzioni, ed all’interno di questo sentire anche a tutto un suo insieme non esaustivo.
Basterà riflettere, a questo medesimo riguardo, sulle significazioni manifestamente trascendenti delle varie arti tradizionali, confrontate che siano queste con tutti gli orrori delle produzioni degli artifici moderni e contemporanei. Nulla aventi questi ultimi di immediatamente significativo per un uomo comune, se non in un verso prettamente tellurico ed infero affatto discendente, e quindi nel senso di una mediazione nel verso di quella trascendenza che pur sempre li verrà a produrre, la quale non ne rende perspicuo il concludere nel suo verso, in quello Supremo, e delle sue funzioni superne.
Nostra conclusione dunque inevitabile, a questo medesimo riguardo, sarà che le immaginazioni mentali in senso stretto non saranno scienza, perché non saranno essere in un senso eminente, ma bensì saranno tali in un senso riduttivo, il quale ne invaliderà il concludere trascendente. In questo senso dicevamo dunque, che la scienza, in un senso proprio e stretto, sarà scienza dell’essere, vale a dire, d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, e dei suoi segni nel senso suddetto. Vale a dire, in primo luogo, eminentemente degli Attributi Divini, se in un senso proprio l’Essenza Divina non sarà a rigore conoscibile, in quanto eminentemente risolutiva della conoscenza stessa.
Detto che sia tutto questo, sarà qui necessaria un’ulteriore considerazione, vale a dire, quella sulle pretese vane di quella presunta e pretesa conoscenza immaginale e mentale, riduttiva ed illusoria in quanto tale, con tutte le sue pretese di corrispondere perfettamente all’attualità mondana della cosiddetta presunta esperienza, per loro almeno. Laddove poi verremo, in questa medesima sede, a vedere quale sarà mai in effetti lo statuto di questa esperienza nei confronti di quell’effettualità sensibile della quale avevamo detto poc’anzi, in ragione di tutto quello che riduce in essa la percezione immediata.
In effetti, la scienza moderna e contemporanea viene scissa irrisolubilmente in due componenti in definitiva affatto irriducibili, vale a dire, da un lato l’effettualità mondana, nella quale si viene a costruire quell’esperienza tanto millantata, con tutte le sue pretese vane d’indiscutibilità, della quale diremo qui in seguito. E dall’altro canto di contro, tutto l’insieme di concrezioni immaginali della mente di cui sopra, con il loro statuto numerico e figurativo, nella loro pretesa di corrispondere perfettamente alla prima, una sorta di caricatura della scienza come scienza dell’essere ed essere reduplicato.
Ci si potrà venire a dire, come già ci si diceva ai tempi dei nostri studi universitari, con tutte le loro insulse e vane pretese “scientifiche”, che questi due mondi si corrisponderanno perfettamente. Essendo le elaborazioni di queste concrezioni mentali perfettamente confermate dall’esperienza, che andrebbe con loro meravigliosamente a nozze. Anzi traendosene risultati effettuali vari e stupefacenti, vale a dire, tutti i tanti inutili artifici dalla sembianza meravigliosa che stanno davanti ai nostri occhi in questo nostro basso mondo effettuale. Ce lo si diceva allora nell’insegnamento della meccanica razionale.
Ora come anche dicevamo poc’anzi, quei raziocini disincarnati e spettrali nulla avranno a che vedere con l’effettualità, perché sfidiamo chiunque a ravvisare in questa le equazioni di Maxwell, o i limiti del calcolo infinitesimale, o l’equazione di Schrodinger, tanto per fare degli esempi ben noti, almeno per degli addetti ai lavori. Ma anche a ravvisarvi solamente il più elementare dei numeri. Dove sono i numeri all’interno delle cose? Ed all’esterno, non si tratterà forse d’illazioni e di note arbitrarie, come per un insieme di sassi?
Già Molla Sadra lo aveva messo in rilievo, trattandosi della questione dell’esistenza meramente mentale dell’unità di un insieme di enti separati, quale ad esempio un esercito, o aggiungiamo noi, il popolo con la sua pretesa inesistente volontà sovrana, che nulla concludono effettualmente. Il fatto è che qui, a nostro modesto avviso, entra in gioco un elemento fondamentale, essendo noi indotti a discutere uno degli elementi della trattazione del Thuring, peraltro anticipato nell’introduzione del Waldner, trattandosi della questione, prettamente ebraica e talmudica, dei cosiddetti “midrasin”.
Questi sarebbero il fondamento delle elaborazioni astratte dello Einstein, dove qui di nuovo ci teniamo a sottolineare che questa razionalità è apparentemente e velleitariamente avulsa dall’intelletto, come i suoi correlati pretendono di essere separati dal Principio Divino del tutto. Intelletto che sarà la sua funzione superiore, essendo quindi essa condannata, siccome recita a questo medesimo riguardo Maulawi, ad avere “la gamba di legno”.Il fatto nel senso suddetto di un ricondurvisi nondimeno, che pur sempre sussiste, ma mediato, come già prima dicevamo, e per nulla perspicuo, anzi affatto nascosto.
Il termine ebraico “midrasin”, in una lingua che noi non conosciamo, corrisponde peraltro perfettamente a quello della lingua araba ad essa affine “dars”, plurale “durūs”, dalla radice verbale di prima forma “darasa’, in italiano “imparare”, la quale si presta dunque perfettamente alla nostra bisogna. Questi “midrasin”, che ci permettiamo quindi qui di tradurre con “insegnamenti”, sarebbero il tramite razionale e concettuale che permetterebbero di ricollegare gli “halacot” alla Torah, vale a dire, alla Bibbia ebraica, evitando tutta una serie d’incongruenze derivanti dalla loro discrepanza.
Senza che ci sia qui nessun bisogno di spiegare che cosa sia mai la Torah, la Bibbia ebraica e cristiana, lo ripetiamo, Torah menzionata ripetutamente dal anche Sacro Corano, questo almeno limitatamente ai suoi primi libri accettati da tutti costoro, e detti “canonici” in contrapposizione ai cosiddetti “deuterocanonici”, i primi costituendo il canone palestinese, i secondi invece quello alessandrino. Osserveremo qui invece “halacot” avrà in lingua araba tutto un insieme di corrispondenze, a seconda del valore consonantico che viene assunto, facendosi qui dunque la cosa un poco più complessa ed articolata.
Si va, nella medesima lingua araba, dall’annientamento di “halaka”, al tagliare o radere, che sarà quello di “ĥalaqa”, alla nerezza di “ĥalk”, alla creazione di “ķalq”. Termini che tutti e quattro andrebbero bene al nostro proposito, nel senso da noi sopra esposto quanto a quelle realtà meramente immaginali, di una realtà creata oscurata, ed annichilita, ed annerita, e rasa, ci permettiamo qui noi di interpretare e di tradurre. Vale a dire, nel senso di una realtà affatto diminuita e ridotta, la qual cosa verrà ad invalidarne, anche se solamente parzialmente, lo statuto esistenzialmente universale di segno della trascendenza.
Nel mentre la Torah, a prescinderne dal vocabolo arabo specularmene corrispondente, avrebbe invece in questo modo il senso di “turraħ”, “frottola”, “inganno”, oppure di “taraĥ”, afflizione, tristezza, con riferimento al doppio inganno, e quello dell’alterazione giudaica delle scritture divine, e anche di quello di un nostro basso mondo di natura che non corrisponderà più del tutto, anche solamente sotto il riguardo corporeo, al modello divino originale del giardino edenico, vale a dire, alla “fitraħ”, all’apertura divina, oppure alla “ţarīq”, vale a dire, all’evento della via originale umana e naturale.
Ora quello che andrà quivi fatto notare, è che un procedere siffatto, da assunti a conclusioni che non hanno nessun senso immediato, ribaltando anzi una sequenza esistenziale necessaria, vale a dire, da effetto a causa, non da causa ad effetto, da una conseguenza ad un principio, nel senso, in questo caso, del procedere dalle elaborazioni razionali e mentali alle cose ed agli eventi di natura, non sarà certamente un fatto ed una procedura esclusivamente ebraica e talmudica. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” dice Gesù, la pace si di lui, nell’Evangelo, anche se ad un diverso proposito.
Va qui in primo luogo rilevato un fatto assai importante, che i midrasin suddetti nulla avranno a che vedere con la deduzione trascendente. Deduzione presente non solo negli “uşūl” islamici, vale a dire, la derivazione dei particolari applicativi della legge da tutto un insieme di principi concettuali previi, ovverosia gli stessi “uşūl”, appunto in arabo principi, quivi principi di derivazione, da un insieme di “manābiº”, plurale di “manbaº”, nel significato di sorgente, fonte. Le quali fonti saranno nel nostro caso il Sacro Corano, le narrazioni dei Puri, l’intelligenza, ed il consenso dei sapienti.
Procedimento avente il suo perfetto corrispettivo nella definizione Marco Tullio Cicerone, per la quale “lex est ratio tracta a numine deorum, imperans onesta et prohibens contraria”. Laddove la corrispondenza con la versione islamica sarà perfetta, se si tiene dell’intervento umano nel trarre, il trahere di Cicerone, lo “ijtihad”arabo, vale a dire, lo “sforzo” per la deduzione giuridica suddetta. E se si sostituisce il plurale “deorum” con il singolare “Dei”, con riferimento ad Iddio l’Unico, sia magnificato ed esaltato. Il che sfata ogni pretesa sull’indole prettamente indoeuropea, e non universale di tale deduzione.
Fatta questa necessaria osservazione, sarà del tutto da dimostrarsi, che l’inversione sia prerogativa esclusivamente giudaica e talmudica, senza avere nulla a che vedere con il resto. Per limitare il nostro discorso alla scienza, già Evola aveva osservato, che sarà del tutto da dimostrarsi, che la scienza moderna sarebbe pretta prerogativa giudaica, senza nulla avere a che vedere con gli altri popoli e le altre razze, quantunque i nessi giudaici siano di fatto indiscutibili. E sarebbe fisima alquanto aberrante volere addirittura localizzare la trascendenza, se “spiritus spirat ubi vult”, come ci dice la Bibbia.
Quanto all’inversione in generale, basterà pensare a quella di Giordano Bruno, che con perfetto addentellato massonico rovescia la realtà, riconducendo nel suo “Della Causa, Principio, ed Uno” alla materia prima l’origine di tutte le cose. Od all’inversione di Cartesio, che deriva l’essere dal pensiero, non il pensiero dell’essere, dando luogo alla successiva falsa alternativa di realismo ed idealismo propria dell’Occidente. Od allo Hegel che, similmente a Giordano Bruno, anzi ancor peggio, all’inizio della sua “Scienza della Logica”, fa del nulla il principio universale, mentre lo Heidegger lo identifica con l’essere ultimo indeterminato, rovesciamento dell’Essere Primo Perfetto, la cui distinzione era invece nota a Tommaso d’Aquino.
Questa inversione, e non siamo al corrente di quanto potesse avvenire nel contempo in altri mondi umani, come l’India e la Cina, è da ricondursi in generale, quanto all’Occidente, alla sofistica presocratica, con tutta la sua pretesa d’indifferente umanizzazione inferiore che lascia il tempo che trova, che ribalta la realtà, pretesa giustamente biasimata da Socrate prima, e da Platone poi. Inversione che rovescia l’essere in un suo particolare affatto assolutizzato, che viene assunto siccome il principio dell’esistenza, con una conseguente relativizzazione del tutto, assunto non per il Principio, ma per lui.
Ed alla stessa logica aristotelica, che assume per partito preso una generalità del tutto esterna ed avulsa dai particolari, la quale nulla avrà a che vedere col Principio Universale onnicomprensivo, per ricondurveli in tutta la loro separazione, dando così origine a quell’induzione, od assimilazione, della quale diremo di più qui più oltre, che è all’origine degli abusi moderni, in molti campi, non solamente in quello presunto e preteso cosiddetto “scientifico”. Com’è ad esempio nella dottrina pubblica dell’immaginaria volontà popolare, presa per un assoluto neppure dedotto, o meglio, neppure indotto.
A questo punto è da mettersi in rilievo un fatto capitale, che sarà quello per il quale qualcosa di simile alla controdeduzione talmudica, anche se non esclusivamente, avrà luogo ingenerale assai disinvoltamente per quello che concerne in generale l’elaborazione scientifica moderna e contemporanea. Dicevamo che è ben difficile dimostrare che certe formule ed equazioni, in tutta la loro astrazione, abbiano qualcosa a che vedere con la realtà di fatto. Cionondimeno una qualche corrispondenza vi sarà pur sempre ravvisabile, specialmente per certe produzioni artificiali, peraltro niente affatto necessarie.
Il fatto è che sino al Rinascimento almeno, le grandi cattedrali venivano costruite senza ricorrere a nessuna formula, od a calcoli dimensionali, tanto che, dal punto di vista di certi saccenti stupidi, ed ignoranti, e presuntuosi, certe opere capitali, quali ad esempio il Duomo di Milano, sarebbero addirittura sottodimensionate, a dispetto del fatto che si reggono perfettamente in piedi. L’abbiamo sentito con le nostre orecchie da un docente del politecnico di Milano. Anche se poi erano costretti riconoscere, che per costruire una cupola era pur sempre necessaria la conoscenza di un Maestro.
E qui entrano in gioco necessariamente, a nostro modesto avviso, due considerazioni ulteriori affatto complementari, l’una generale, anzi più correttamente universale, l’altra invece particolare. Una dunque, vale a dire quella universale, sarà il principio, per il quale due enti qualsivoglia derivati dalla trascendenza e del Principio Supremo, si corrisponderanno inevitabilmente, in una qualche loro maniera, quantunque non sempre perspicuamente, e neppure perfettamente, a scanso di ogni insussistente eguaglianza, quantunque immaginata stoltamente dai moderni, che li renderebbe un medesimo.
L’altro principio ulteriore del quale si dovrà tenere conto, sarà quello della natura degradata, per il quale, a causa del velleitario allontanamento degli enti di natura dal Principio Supremo e dalla trascendenza per via del tralignamento della loro origine umana, di cui ci dice Molla Sadra, alla quale si riconducono siccome alla loro intermediazione quanto ai mondi superiori, quella corrispondenza generale verrà a rendersi in una certa misura più perspicua. Tanto da dare luogo in molti casi, nella fattispecie quella delle produzioni artificiali, all’illusione di un’insussistente corrispondenza perfetta.
Assimilazione e reduplicazione, delle quali avevamo detto già sopra. Ma ora in ogni caso, quella corrispondenza resterà pur sempre imperfetta, rimanendo essa inoltre affatto esterna, tanto da rendere necessaria una sorta di traduzione, per mezzo di qualcosa di simile ai “midrasin” ed alla loro traduzione. Ora i Maestri talmudici, per parte loro, ne facevano uso per riportare alla Torah le prescrizioni ad essa estranee, tanto da non dovere rendere conto di nessuna innovazione a questo medesimo riguardo quanto alle norme ad essa sopraggiunte, che andavano pur sempre giustificate in qualche modo.
E se anche lo Einstein legava per parte sua alla natura la sua dottrina della relatività con un procedere arbitrario consimile a quello talmudico, sarà pure anche che, per limitarci qui alle pretese della cosiddetta “scienza” moderna e contemporanea, un procedimento consimile si renderà ancora necessario, per giustificare in generale la pretesa e presunta naturalità di eventi meramente razionali ed immaginali, vale a dire, la loro assunta schietta conformità in rapporto alla natura effettuale, ovverosia con la “natura naturata”, per dirla con Scoto Eriugena, immediatamente sotto i nostri stessi occhi, e niente affatto immaginale.
Questi legami, che nel caso della relatività, e di altre dottrine ed elucubrazioni affatto consimili contemporanee, quali la meccanica quantistica, relativistica o non che essa sia, si esprimono siccome principi affatto arbitrariamente postulati, contrariamente a quell’evidenza di cui avevamo detto poc’anzi, negando la quale si finisce invece col negare la negazione stessa. Questi legami, da intendersi nel nostro caso in un senso più generale, saranno da riportarsi alla cosiddetta sperimentazione, la quale pretenderebbe invece per parte sua di non avere neppure bisogno di postulati arbitrari siffatti, facendola da tramite tra l’effettualità e le leggi arbitrarie suddette.
L’esperimento peraltro sarà peraltro per parte sua un evento meramente particolare, il quale verrà effettuato sotto certe condizioni volute, dando inoltre anch’esso i risultati voluti, seppure sempre in quel caso particolare, non certo in un altro caso. Noi non abbiamo certamente a disposizione l’insieme di tutti gli eventi possibili, così come non abbiamo neppure a disposizione l’insieme di tutte le condizioni possibili per ogni singolo evento. Verrà dunque ad essere quest’ultimo il bandolo della matassa, che darà ragione dell’artificio, togliendogli tutte le sue pretese esorbitanti e fuori luogo.
L’insieme degli eventi e delle condizioni possibili ci darebbe quello che qui non abbiamo invece in nessun modo, vale a dire, una generalità portata all’estremo, anche se non un’universalità, di fronte ad un’individuazione, o tutt’al più, ad una particolarizzazione niente affatto sufficiente. Il ripetersi degli eventi è in effetti connesso ad un insieme di condizioni irripetibili, una per una, del quale insieme noi non abbiamo invece nessun sentore. Questo sarà il nostro stato mortale presente, e null’altro, il quale richiederà un’ascesa alla trascendenza, ai livelli superiori dell’essere con le loro prerogative.
È quanto l’autore della nostra prefazione, il Waldner, mette in evidenza in particolare quanto all’esperimento famoso di Michelson Morlei, con le sue pretese esaustive attribuitegli dallo Einstein, esperimento da lui assunto come fondamento celebre della sua parimenti celebre dottrina relativistica. In quelle condizioni, per ripetute che esse possano essere, ma per nulla esaustive, non sarà possibile, ma solo e soltanto sotto quel riguardo, mettere in evidenza nessun movimento e della luce e della terra rispetto all’”etere” presunto, vale a dire, più in generale, com’è per lo Einstein, nessun moto della luce in generale.
Ora qui si rendono necessarie alcune considerazioni aggiuntive a queste previe considerazioni preziose, ripetute ed ampliate dall’autore del testo in questione rispetto all’introduzione. Si tratterà in primo luogo della questione della supposta generalità dell’esperimento, che non sarà certo il singolo esperimento effettuale, assunta come quella siccome pezza giustificativa, in linea di principio, senza nessuna considerazione reale di fatto, di ogni presunta corrispondenza tra il numerico, vale a dire, tra il razionale ed immaginale, e l’effettuale sotto i nostri stessi occhi, di cui dicevamo già prima.
Sarà questo in effetti un assunto generale, nulla avente a che vedere con assunti invece particolari, quali il principio di determinazione di Heisemberg, o le leggi della dinamica, o le leggi della termodinamica e così via dicendo. Assunti come postulati non dimostrati, né dimostrabili, il che è peggio, al pari di quelli euclidei, o dello stesso principio di non contraddizione di Aristotele. E non diciamo qui delle varie equazioni, quali la formula di Coulomb, o come l’equazione di Schrondinger, o quelle di Maxwell, parimenti arbitrarie, sia mentalmente e razionalmente, sia effettualmente.
Ed in effetti, che cosa sarà mai un principio? Sarà una evidenza tale, siccome già prima dicevamo, che la sua negazione non porterà ad altro, se non alla sua stessa affermazione, come nel caso di quello dell’essere. È la questione dell’”essere è”, alla lettera, “è essere”, di Parmenide, dai suoi frammenti, perché se l’essere non fosse, ci si ridurrebbe inevitabilmente ad un nulla, il quale, del tutto insussistente ed irrilevabile, gli farebbe immancabilmente posto. Lo stesso Aristotele osservava che sarebbe da perfetti ignoranti pretendere di dimostrarlo, nel caso esso sia reale, aggiungiamo noi.
È la questione del principio d’identità, il quale, se negato, porterebbe ad una sua insussistente negazione, se sarà ancora che, se l’uno non fosse, dovrebbe essere di nuovo, non avendo esso così dato luogo se non ad una mera insussistenza, vale a dire, ad una indefinita molteplicità affatto priva di uno. Così come anche, nel Parmenide di Platone, riservato appunto all’Uno, le varie alternative contrastanti che lo negano, particolarizzandolo e discernendolo per contrapposizioni varie, non porteranno ancora di nuovo se non all’Uno stesso, il quale le verrà a comprenderle pertanto tutte quante in Sé eminentemente.
Uno che andrà qui inteso non nel senso del trascendente degli scolastici, vale a dire, siccome un qualcosa di annesso e di identico a qualsiasi esistente, come anche il bene, in questo medesimo senso subordinato. E nulla avendo neppure a che vedere con le forme cosiddette trascendentali, vale a dire, con le forme conoscitive a priori immaginate da Emanuele Kant, forme che lasciano il tempo che trovano, nell’ignoranza della suddetta corrispondenza universale degli enti di natura. Nel mentre il primo significato verrà ad essere invece legittimo nella sua universalità subordinata.
Ma andando invece inteso nel senso del bene platonico sovraesistenziale, che Plotino riporta all’Uno, superiore all’intelletto ed alla sua composizione formale, anche se non sostanziale. Che Tommaso d’Aquino, superando nella sostanza, così come del resto anche Dante Alighieri, la sua apparenza aristotelica, forse dovuta, con la medesima loro limitazione, ad Avicenna, riporta ad Iddio Stesso, sia magnificato ed esaltato, come ad una sorta di Sovraessere, vale a dire, l’Essere Stesso in quanto superiore all’esistenza composita del quod est, vale a dire, della reduplicazione esistenziale separativa.
Quindi in definitiva l’esperimento, con tutti i suoi postulati vari ad esso annessi, sarà da distinguersi nettamente dai principi reali, ed inconcussibili, e trascendenti dei quali dicevamo già qui sopra, siccome principio della connessione suddetta. Vale a dire, che esso andrà considerato siccome il perfetto equivalente dei “midrasin” talmudici di cui ci dice acutamente il nostro testo, non aventi nessun valore quanto alla connessione suddetta. Trattandosi peraltro di un principio affatto generale, per parte sua, a differenza di quei principi vari ulteriori postulati dei quali avevamo già detto sopra.
Trattandosi peraltro di un principio generale, anche nel senso di non riconnettersi al Talmud, ma di comprenderlo, così come ai giudei suoi seguaci ed elaboratori. Tanto che, in virtù della sua generalità, ripetendo l’assunto corretto ed acuto di Evola a questo medesimo riguardo, la scienza moderna e contemporanea non verrà affatto ad essere, in questa maniera, una creazione esclusivamente giudaica, avendo altri diversi addentellati. Come riconosce, anche se almeno in parte, lo stesso Thuring, sia pur facendo riferimento ad una per lui ineludibile influenza giudaica, che ne farebbe il principio.
La pretesa peraltro del medesimo Thuring, di ricondursi, contro la relatività, ad una scienza schiettamente newtoniana e galileiana, è a dir poco assurda. Saranno infatti Galileo, e ancor più il Newton dopo di lui, a farsi latori di una figurazione prima, e di una numerazione astratte poi. Astrazione dunque più figurata nel primo caso, più numerica nel secondo, ma pur sempre trattandosi di mere astrazioni, che riducono il modo ad uno spettro disincarnato di elaborazioni numeriche, o di figure varie, come osserva acutamente Evola. La questione si ripropone con la sentenza, attribuita a Goethe, messa all’inizio del nostro libro, quanto agli strumenti artificiali di rilevazione.
L’essere umano tralignato, invece di assumere i segni della sua esperienza immediata siccome scale di ascesa alla conoscenza della trascendenza e del Divino, avvalendosi a tal fine anche di un’intelligenza operativa resa conseguenzialmente ragione, non di una ragione velleitariamente astratta dal suo principio, invece di questa, si avvale invece di apparecchiature artificiali da lui stesso costruite. Per produrre, anche e soprattutto per loro tramite, un mondo spettrale di per sé stesso inesistente, il quale viene tenuto su da tutta una numerazione e da una figurazione astratte le quali lasciano il tempo che trovano.
Che ne sappiamo noi, a tale proposito, di un moto preteso istantaneo? Quello che percepiamo sarà invece un movimento locale, valutato di volta in volta, non un limite numerico di per sé insussistente, se non nell’elaborazione mentale, contrariamente a quello che ha preteso invece il Newton. Dove saranno mai i punti inestesi in movimento? Dove sarà mai un punto di tangenza? Che nondimeno Galileo, semplicissimo contro il suo preteso Simplicio del suo Dialogo dei Massimi Sistemi, pretendeva esistessero, contro gli assunti di Parmenide e Zenone, e dello stesso Aristotele.
Che senso avrà mai l’ovvietà banale del primo principio della dinamica newtoniana, mera “tautologia”, per dirla all’ellenica, o reduplicazione, nel senso di una ripetizione, e non di certo un riflesso esistenziale identitario? Vale dire, non principio indiscutibile ed innegabile il quale si rifletta dalle vette dall’intelletto primo alla ragione argomentativa e discorsiva inferiore, ma invece mero assunto, il quale non tiene in nessun conto l’estensione inferiore della nozione di causa, vale a dire, la sua nozione necessaria, superiore ed ineludibile, superiore e produttiva di tutte le sue ricadute inferiori.
Causa che viene così ridotta ad un’insussistente effettualità, dimenticando che invece essa, a rigore, si ricondurrà ai livelli superiori dell’essere, nel senso che sarà da quelli, dalla loro causa, che addiverrà l’effetto agli inferiori, errore questo davvero capitale. Per non dire del secondo di quei tre principi, che definisce due nozioni l’una dall’altra, con un circolo vizioso. Vale a dire, la massa dalla forza, e viceversa, non l’accelerazione, la quale avrà a che vedere con le rappresentazioni originarie ed immediate dello spazio e del tempo quanto alla percezione umana, assieme all’annesso movimento.
Sarebbe assai lungo fare in questa sede una lista delle assurdità propinateci per evidenti da questa scienza pretesa e presunta, che o evidenti non sono affatto, oppure si riconducono a quelle varietà delle quali dicevamo sopra, non certo a principi innegabili, ma invece a certe evidenze supposte tali, le quali potranno essere assunte riduttivamente sotto certe condizioni limitative, non certo assolutamente. Venendo nondimeno propinate per assolutamente e ripetitivamente valide, com’era ad esempio per gli esperimenti, che ci si fanno passare per sempre validi, pur nella loro delimitazione.
Tanto che il Newton, con i suoi rocamboleschi giochi di prestigio numerici, dopo di lui purtroppo sempre in uso, inintelleggibili solo perché non c’è nulla da capirvi, andrà ad identificare il moto degli astri, da lui ridotti, con Galileo e Keplero, a meri enti corporei, pur con il loro moto esistenziale legato alla sempiternità, com’eternità parziale dell’ascesa all’Essere, con l’attrazione verso il basso dello spazio sublunare. Riconducentesi ad una discesa nel verso di una materia sussistente solo come limite della successiva dissoluzione infera e tellurica, discesa che egli generalizzerà indebitamente, nulla capendone.
Portando alle sue estreme conseguenze, grazie a quella mela infera che, guarda caso, gli sarebbe caduta sulla testa, quegli assunti assurdi di Galileo, il quale pretendeva di vedere i mondi superiori dell’essere, la trascendenza, il “malakūt” in lingua araba, nientemeno che grazie ad un cannocchiale, inventato tanto prima dai musulmani, che non ne avevano però fatto quel suo uso distorto. Grazie ad un surrogato corporeo ed artificiale, che si distingue da quell’immediatezza sensibile fomento dell’ascesa ai livelli esistenziali eminenti, il cui uso corretto non andrebbe disgiunto dall’immediatezza percettiva.
Tanto da non vedere più nelle stelle dei segni della trascendenza, anzi dei segni superiori già perfettivi, nella loro corporeità sublimata, annessa ch’essa ne sia all’esistenza, com’era ancora ad esempio in Dante, ma delle mere palle materiali ed inerti, per di più relegate a quella materia inferiore, dalla quale Tommaso d’Aquino distingueva quella superiore per via della sua realizzazione formale non difettiva. La quale le rende, per il tramite dell’atto esistenziale, superiori ai corpi potenziali, alla loro almeno parziale insussistenza inferiore, al loro difetto d’essere attuativo. Queste essendo alcune soltanto delle molte, delle troppe magagne di quella “scienza” presunta.
Alla qual cosa dobbiamo aggiungere anche il fatto capitale, che la stessa scienza aristotelica si presenta siccome un che di riduttivamente premoderno. Con la sua negazione dello statuto significativo degli enti della natura inferiore, della “natura naturata”, qui in senso limitativo, per dirla sempre con Scoto Eriugena, egli non farà che relegare le nature superiori ad un movimento circolare locale, negando così ogni funzione all’ascesa intellettuale per il tramite dei segni stessi, annettendoli peraltro ad una procedura argomentativa, ad un “logica”, resa affatto formale, meramente distintiva, non ad un procedere dall’unità ed all’unità, com’è in Socrate e Platone.
Non avendosi dunque qui nessun procedere sostanziale, come sarà invece per Molla Sadra, sulla scorta dei suoi predecessori e del Sacro Corano, prevalendo per lui la separazione di un’unità inferiore ed astratta, quella della generalità, non dell’universalità unitaria comprensiva, il tutto da annettersi a quella natura inferiore lasciata a sé stessa, di cui egli si fa vessillifero con le sue pretese. Com’è peraltro esemplificato dalla sua figura orientata nel verso della terra nel celebre affresco della “Scuola d’Atene di Raffaello Sanzio, accostata per contrasto all’ascesa di Platone, alla sua eminenza intellettuale.
Sarà così che, a dispetto del fatto che lo stesso Aristotele vedeva nei numeri, com’egli afferma nella sua “Fisica”, anche se alquanto limitativamente, come vedremo appunto più oltre, degli enti astratti ed insussistenti, anche se immobili, affatto distinti da quella trascendenza alla quale nondimeno egli riconosceva un essere e la prerogativa dell’immobilità, e dagli enti di natura, sussistenti e mobili. Egli sarà cionondimeno il promotore e l’involontario precursore dei mirabolanti orrori successivi delle “magnifiche sorti e progressive” della pretesa e presunta cosiddetta “scienza” moderna e contemporanea.
Sarà così pertanto, che la sua dottrina non sarà affatto capace di reggerne all’urto devastante del sembiante suadente, avendola egli già, a suo modo, e prodotta e preconizzata al suo interno a suo tempo. Senza che la suadente dottrina platonica delle corti rinascimentali, ridotta peraltro a mero sentimento d’amore, sia pure trasfigurato da certi meriti indubitabili del Ficino, avesse nulla da dire e da opporre a questo medesimo riguardo. Sarà così dunque che i giochi saranno fatti inevitabilmente, a tutto vantaggio delle innumerevoli magagne dell’inversione moderna e contemporanea della conoscenza.
Sarà la stessa sorte che toccherà ad un mondo tradizionale d’Oriente affatto assorto nelle vie dell’ascesa, in particolare quello musulmano, nella fattispecie quello dei seguaci della Famiglia del Nunzio Divino in Persia, senza fare sdegnosamente nessun uso effettuale dei suoi stessi tesori sapienziali. Com’era ad esempio per i giochi di fuoco in Cina, per la polvere da sparo colà usata con estrema abbondanza, ma non certo per uccidere, ma per diporto, e certo anche sotto il riguardo di segni dell’ascesa alla trascendenza, che alla fine nulla potranno contro la devastazione dei cannoni inglesi.
Tanto che alla fine gli stessi giapponesi ricondottisi, almeno parzialmente, dagli orrori della guerra moderna alla sua ascesa significativa alla trascendenza, non potranno più, pur con il loro valoroso e generoso sacrificio contro le forze soverchianti del nemico di tutti, del nemico americano, ripetere il miracolo di quel “vento degli dei”, che aveva in passato distrutto la flotta mongola che si accingeva ad invadere la loro terra, la terra degli Dei, com’è che essi stessi allora la definivano. A nulla valendo, come osserva Evola, la sovranità d’origine divina contro il capitale statunitense.
Perché inoltre, come osserva sempre Evola, una certa aggregazione d’indurimento corporeo, risultato del tralignamento umano, si era già fatta avanti nel mondo. Tanto che la stessa Invincibile Armada, forse troppo fidando nel suo potere corporale, e meno fidando in Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, era stata distrutta dalle tempeste regressive infere di questa nostra età di tenebra, al momento di invadere la terra di quegli anglosassoni, oramai barbari rinnegati, fomento di molte mondane nefandezze, questo a dispetto di tutte le investiture e le benedizioni dell’autorità spirituale d’Occidente.
Aristotele aprì dunque la via ai vari Galileo, Newton, Einstein, Schrodinger, e così via dicendo, alla loro arroganza e presunzione che lasciano il tempo che trovano, facendola peraltro da vittima sacrificale predestinata della sua stessa mala antecedenza e preveggenza. Risulterà inoltre da tutto quello che avevamo detto poc’anzi, tutta una serie di assunti di estrema insignificanza. In primo luogo, il fondarsi sullo spazio e sul tempo vuoti, invenzioni, od ispirazioni personali del Newton, a dispetto dell’uso generale fattone in seguito dai tanti supposti “scienziati”, così come dai loro vari manutengoli, universitari o no.
Lo spazio vuoto come preteso, ed insussistente, ed assurdo “sensorium Dei”, “senso” o “sede” d’Iddio, sia magnificato ed esaltato, con un’espressione in pretto latino barbaro che sarebbe stata usata proprio dal Newton, non avendo noi elementi per comprovarlo, non è se non il manifestarsi dell’insussistenza assoluta del nulla al nostro medesimo livello d’esistenza, quello della corporeità. Il nulla non avendo nessuna sussistenza, che non si riduca a quella del sua mera e vacua identità immaginaria mentale, null’altro. “Il non essere non è”, per dirla con Parmenide, “non dire mai null’altro”.
Di per sé stesso non avendo nessuna sussistenza, come rileva Platone, seguendo appunto Parmenide, nel Sofista, sia pure introducendo quell’altro, in greco ”eteron”, distinto dal contrario dell’Essere, l’”enantion” sempre in greco, il quale altro non sarà se non l’essere diminuito, e delimitato, e definito, non quello Semplice ed Infinito, del quale quello sarà manifestazione. “Non dire mai del nulla che sia”, ed “è essere”, sempre con la locuzione di Parmenide, nel primo caso riportato direttamente da Platone nel Sofista suddetto, espressioni a noi note da quel che ce ne resta nei suoi frammenti.
Quello che in un certo senso esiste sarà invece la materia, o piuttosto la corporeità, ma non nel suo significato volgare di una sussistenza, peraltro non rilevabile, ma bensì in quello suddetto, di cui poc’anzi, di un ente liminale, sospeso sul mare tenebrarum del nulla puro. Il quale separerà le formalità inferiori individuate dalla dissoluzione ultima ed infera e tellurica, dando loro una separazione individuante, nel senso di negarne la realtà superiore sopraindividuale e limitatamente almeno universale, vale a dire, le determinatezze fisse dei sapienti musulmani, oppure anche gli esemplari platonici.
Su questo nulla, così come su quelle particelle affatto inestese, affatto astratte, affatto di per sé inesistenti, le quali sussisterebbero in un nulla a sua volta niente affatto sussistente, quante assurdità sino state immaginate, ed edificate, e propalate! Dal punto di tangenza galileiano, ai movimenti di enti puntiformi della cinematica e della dinamica newtoniana, agli atomi, le particole individue pretese indivisibili, dal Bohr allo Schrondinger, non importa qui se quelle del primo più ingenue e planetarie di quelle spazialmente e temporalmente indeterminabili del secondo, con la loro onda di probabilità.
Se in un caso o nell’altro quello con cui avremo a che vedere sarà sempre la medesima particola inestesa, nel primo dei tre casi, che nel secondo caso pretenderebbe di muoversi nel nulla nientemeno. Mentre nel terzo caso ci troveremo addirittura al cospetto di un insieme di enti sovrapposti ad una soluzione di continuità, vale a dire, il vuoto presunto frapposto tra il nucleo e gli elettroni roteanti nel loro piccolo apparato stellare, o come particole, oppure come probalità ondiformi, del quale vuoto, pur elemento decisivo, non sarà possibile dare ragione alcuna! “Orror vacui”, ci sarà detto, e sia così.
È su questi “bei fondamenti, espressione non di Don Ferrante, ma che il Manzoni pronunziò in tutta la sua supponenza da preteso illuminato modernizzatore, contrariamente a quanto ritiene il Waldner, quante amenità sono state propalate, quante assurdità sono state immaginate, quante brutture sono state persino edificate nella stessa effettualità mondana! Suscitando la stupefazione ebete dei vari astanti, creduloni, od ignoranti, o profittatori che essi siano, con tanto di livrea pretesa scientifica, ed anche talora con tanto di titoli ed incarichi ufficiali universitari, nel luogo che dovrebbe essere il fastigio della conoscenza!
Il nulla preteso e presunto del vuoto è una delle assurdità più patenti delle moderne e contemporanee scienze della natura, nata sul presupposto illusorio dell’esistenza potremmo dire “kantiana”, non fosse stata mutuata dagli errori antecedenti del Newton, e preparata dalle figurazioni astratte di Galileo, di uno spazio e di un tempo a sé stanti, del tutto privi di qualità che non siano quella della loro indeterminatezza originale, ai quali tutto il resto si sovrapporrebbe. La qual cosa è certo ingannevole ed assurda, non meritando nessuna confutazione, se non fosse purtroppo tanto diffusa ed accettata.
Non si avranno in nessun caso uno spazio ed un tempo senza qualità, lasciati a sé stessi, ma invece si avrà una materia, o piuttosto, per evitarne gli errori di rappresentazione assurda, pretesa informale, una corporeità, o meglio ancora, una corporeità successiva nella sua reiterazione. Vale a dire, uno spazio qualificato, che darà luogo a sua volta ad un tempo qualificato, tali da dare ragione, tanto per fare un esempio illustre e conosciuto, sia degli spazi, sia dei tempi sacri, mercé delle loro qualificazioni, che si sovrappongono, mettendola del tutto da parte, alla loro astrazione insussistente.
E mercé del loro succedersi ascendente o discendente, o nella direzione della mera dissoluzione esistenziale tellurica ed infera, della quale già dicevamo in precedenza, ma pur sempre nel verso di una processione del Principio Supremo, mediata dal loro risolversi, il cui unico contenuto esistenziale verrà ad essere in questa maniera la loro mera negazione d’essere. La quale pur sempre lascerà in questo modo un residuo del negare, a cui verrà inevitabilmente a fare riferimento, che non potrà venire in questa guisa mai messo del tutto da parte, rimanendo così come un residuo d’essere.
O nel verso di quelle vie dell’ascesa delle quali dice il Sacro Corano, tali da rendere conto dell’ascesa al cielo degli approssimati e degli Intimi, di cui nelle varie tradizioni, a prescindere dalla loro consistenza esistenziale superna, originaria e sempiterna. Questo almeno quanto alla loro estrinsecazione corporea, la quale, in rapporto al corpo stesso, verrà ad essere sottoposta alle sue varie vicissitudine volute da Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, tanto che Egli li potrà trarre a sé nella trascendenza, come già è stato per Gesù e Muhammad, la pace su di loro, o come immagina Dante.
Ascesa quest’ultima sia spaziale, sia temporale, avendo noi modo di dare ragione della differenza tra le due dimensioni, l’una aggregativa, quella dello spazio, l’altra invece reiterativa, quella del tempo, riferentesi quest’ultima ad un essere medesimo ripetuto, non ad esseri successivamente giustapposti. Tanto da farla finita una volta per tutte, in questo modo, con le immaginazioni relativistiche, di fatto regressive e ridicole, di un Minkowski, il quale le mette assieme alla rinfusa, senza darne nessuna ragione distintiva, ma avendo esse invece a che vedere con i livelli vari della realizzazione personale.
Tanto che l’uomo lontano dalla trascendenza, nella sua pretesa varia e velleitaria d’ascesa al cielo, non farà in effetti in definitiva se non aderire ad un suo tempo e ad un suo spazio in quanto materia e reiterazione regressiva delle quali sopra, com’è appunto nei suoi millantati viaggi spaziali. Nella sua illusoria convinzione di potere anch’egli ascendere, come farebbe invece un Intimo, così come il Nunzio Divino, oppure Gesù, la pace e la benedizione d’Iddio Altissimo su loro due. Od anche un Dante, nel senso delle sue sublimi rappresentazioni certamente ispirate, che alle ascese di quelli si rifanno.
Ecco dunque a nostro modesto avviso il significato, in effetti assai modesto ed inquietante, ed affatto regressivo in senso tellurico ed infero, dei pretesi viaggi spaziali moderni, come dei supposti voli dei nostri contemporanei, anch’essi pretesi. Quanto ai quali ci si dovrà rendere conto, ridimensionando le assurde pretese contemporanee, che volano solamente gli uccelli, di cui l’Evangelo ed il Sacro Corano, siccome segni d’Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, e non quei nostri presenti artifici contemporanei, i quali lasciano il tempo che trovano, a nulla adducendo, se non ad illusioni affatto vane.
Artifici di cui i Libri Sacri degli indù hanno detto a proposito di quei diavoli, che ne facevano uso per disturbare l’adorazione degli uomini. E volando anche, in senso stretto e proprio, gli approssimati e gli Intimi d’Iddio Altissimo, sia benedetto e glorificato, vale a dire, ripetendo l’espressione del Sacro Corano, quanti siano radicati nella conoscenza, in quanto in possesso del senso ascendente dei segni divini in senso stretto, e di tutti i segni in senso lato, come anche i Messi Celesti, esecutori immediati della Sua Volontà. Ed oltre a loro, nessun altro, se non velleitariamente e per inversione.
È a questi orrori, a questi assurdi che può portare il sonno dell’intelletto, con lo sviluppo indebito a dismisura di una ragione del tutto da esso avulsa. Essendo il sonno di questa, secondo la vulgata dei nostri centri d’insegnamento contemporanei, che produrrebbe mostri, senza rendersi conto che quel suo sopore sarà identico al suo indebito supersviluppo, alla sua velleitaria pretesa astrazione dai livelli superiori dell’essere, tanto che il suo non essere relativo ad essi andrà pur sempre riferito, oltre alla sua assenza, il quale verrà ad esserle affatto funzionale in un tal senso degradato e perverso.
Il sonno della ragione sarà dunque sonno dal suo radicamento nell’intelletto, e che poi essa ci sia o non ci sia, sarà del tutto indifferente, a procedere da quella sua avulsione, il suo sonno essendo affatto identico al sua superpresenza. È all’intelletto dunque che bisogna ritornare, per farla finita una volta per tutte con tutte queste abominazioni moderne e contemporanee, moderne e postmoderne che esse siano. E dato che qui si sia detto del nulla, e del vuoto, vale a dire, dello spazio e del tempo astratti, non sarà fuori luogo a questo punto, in questa medesima sede, fare alcune considerazioni sulla luce.
Che essa si muova o non si muova, o che essa sia posta nel nulla, oppure nell’etere, come si supponeva prima dello Einstein, non avrà in effetti la sia pur minima importanza per quelli che sono i nostri propositi. Della materia che verrà a riempire in ogni caso lo spazio, ovverosia quello che venga presunto come tale, va sottolineato come si tratti di una realtà asserita dall’intelletto, a prescindere da ogni pretesa convalida sperimentale. Delle magagne della sperimentazione, avevamo già detto in precedenza, com’è che lascino il tempo che trovano, avendo esse un valore solamente momentaneo e locale.
Mentre quanto alla ragione precostituita velleitariamente siccome superiore al suo intelletto, valida o no che essa sia, com’è anche per lo Hegel nel primo caso, oltre che per il Kant nel secondo caso, astratta dalla sensibilità e dalle sue forme percettive, andrà quivi rilevato che ci ritroviamo al cospetto di una mera petizione di principio, la quale pretende per partito preso, come fu per il Kant, e siccome sarà anche in seguito per lo Heidegger, di ridurre l’uomo ai suoi minimi termini, ad alcunché di prossimo all’”infimo dell’abiezione” coranica, prescindendo dalla sua identità esistenziale con l’essere.
La quale identità dovrà essere invece propria alla scienza, come reduplicazione dell’essere stesso, siccome noi già dicevamo poc’anzi, facendo sì che le intuizioni intellettuali siano radicate nell’essere stesso, come giustamente asseriva Molla Sadra, e prima ancora di lui Tommaso d’Aquino. Il primo riferendovi le sue elaborazioni concettuali, viste prima che dette, il secondo radicandovi anch’egli l’argomentazione, la quale, com’è anche per i sapienti musulmani, sarà discorsiva e processiva in senso orizzontale, nel mentre la prima sarà verticale, e presenziale, ed immediata, ed intuitiva.
Nulla da ridire sulle loro visioni e sui loro argomenti, come pretendeva invece velleitariamente il Kant, essendo le sue asserzioni, le sue percezioni, ed i suoi argomenti a contenuto meramente sensibile, per partito preso, niente affatto radicati nella trascendenza, da essa affatto avulsi, da mettersi essi dunque, non quelli, in discussione. Non certo il pensiero di Parmenide, non il nous, vale a dire l’intelletto, e l’Uno di Plotino, non l’Uno ed il Bene di Platone, non l’Essere di Tommaso d’Aquino, di Molla Sadra, e degli altri sapienti, musulmani e no che siano, ma la sensibilità kantiana andrà messa in discussione.
Dicevamo dunque che la luce, a differenza di altri segni divini, e tutto sarà peraltro segno divino, anche la stessa materia, o meglio, la corporeità, la quale dovrà riempire in ogni caso lo spazio, dovrà essere realtà eminentemente intellettuale. Intendiamoci dunque bene sul significato di quest’asserto. Non deve a questo medesimo riguardo trarre in inganno il fatto che per gli altri segni si dovrà procedere da una sensibilità iniziale, dalla quale ascendere poi alla trascendenza, vale a dire, sulle vie d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, la vie dell’ascesa di cui il Sacro Corano.
La luce avrà in effetti un’entità ben differente d’immediata manifestazione divina. È su questo che bisogna bene intendersi. Mentre l’”etere”, o la materia, a prescindere dalla sua formalità corporea, avrà invece il senso di un rovesciamento, essendo che nel verso della discesa gli enti inferiori verranno a rappresentare quelli superiori, il medesimo valendo per questo ultimo, almeno quanto a noi, quanto al Primo. Tanto che, a questa medesima stregua, quella materia verrà ad essere minimamente suscettibile di apprensione sensibile, e tanto meno di sperimentazione, peraltro di per sé stessa insignificante.
Sarà dunque, a questo medesimo riguardo, da accettarsi che la luce, segno divino eminente, dovrà avere luogo in una materia dovunque estesa, vale a dire, la luce radicata nell’ascesa divina, scevra da siffatte rappresentazioni inferiori affatto insulse e ridicole. Perché ci si spieghi, a questo medesimo riguardo, che cosa avrà mai a che vedere la stessa luce sensibile, anche ai suoi livelli inferiori e tellurici della banale elettricità, o peggio della radioattività, con un preteso e presunto campo magnetico in movimento? Ma allora, di quale movimento mai si tratterà? Nulla di più insulso e di più fuorviante.
Queste amenità ci s’insegnavano, al tempo di quei nostri primi studi, i begli spiriti dell’università, del tutto a digiuno, tranne rare eccezioni, d’intelligenza superiore, anche se non certo di un raziocinio affatto velleitario, affatto informe ed insignificante. Se il campo magnetico si riduce per parte sua ad un’astrazione numerica, come potrà muoversi? Come potrà muoversi un numero, se non nell’immaginazione? E potrà immaginarsi il moto di un numero semplice non figurato, non il moto invece di una sua figurazione? E se questo campo si ricondurrà, come asserito, ad una serie di misurazioni?
Onde s’abbia a dare ragione, siccome si era rilevato dianzi, della pretesa corrispondenza e derivazione orizzontale ed effettuale tra l’astrazione numerica immaginaria, e la realtà effettuale. Al fine di imporre a quest’ultima, enti affatto inesistenti effettualmente, occultati nella loro derivazione trascendente, e soltanto mentalmente estraibili, ”intentiones effictae intellectu”, come recitavano gli scolastici. Come dunque sarà mai possibile rendere conto di un insieme di differenti valori numerici astratti come di un moto effettuale? Verrà così a definirsi l’assurdo di cui dicevamo prima.
La luce dunque si muove, oppure non si muove? In un senso effettuale non si muoverà certo, non potendosene rendere conto siccome di un che di corporeo, che percorra in tempi successivi spazi successivi. Ma potrà rendersene conto nel senso, ad essa esplicitamente, non occultamente inerente, d’immediata estrinsecazione divina, e di ostensione della Sua Essenza di per Sé Stessa, siccome di un che d’immediato, come di un che di simultaneamente successivo nello spazio, anche con sua soluzione di continuità, il che la renderà presente nel contempo in più luoghi distintamente.
Le vecchie narrazioni sull’ubiquità, vale a dire, la presenza plurima di Sant’Antonio da Padova, o quelle recenti di Padre Pio da Pietralcina, oppure similmente il ţayyu-l-arď, in arabo alla lettera il “percorrere la terra” dei sapienti musulmani, attribuito di recente a Nejābat Šīrāzī, daranno ragione, anche se in un senso affatto eccezionale e transitorio, di fatti che invece per la luce sono norma, lo avevamo detto prima. In virtù di quella sua natura peculiare, la quale farà apparire perspicuamente le qualità superindividuali e trascendenti anche ai suoi livelli più bassi, ed in questo nostro mondo inferiore.
La luce dunque, siccome ostensione e corrispondenza divina superiore in questo nostro basso mondo, si radica in una corporeità, o materia, come ostensione divina inferiore. Ed in questa guisa, come sarà per l’ubiquità e per il ţayyu-l-arď, il percorso della terra dei sapienti musulmani, sarà istantanea, non avendo bisogno di un tempo per diradicarsi e riradicarsi, venendo quella sua qualificazione superiore dall’Eterno Divino e dall’eviterno trascendente. Apprendendosi dunque nel suo corpo senza procedervi dal basso, anche in presenza di una soluzione di continuità spaziale, non temporale.
Perché la luce, materializzata che essa sia dai mondi superiori, aderendo ad un suo corpo, quale che esso sia, percepibile oppure no, non certo il mero spazio preteso vuoto del Newton e del Kant, sarà contigua a sé stessa, in un senso eminentemente trascendente. Nel senso che istantaneamente, la qual cosa la ricondurrà alla sua qualificazione divina, procederà ad un’estensione spaziale continua o discontinua che essa sia, istantaneamente da un sito ad un altro sito distante senza essere in quelli tra loro, oppure istantaneamente ad un sito adiacente, continuo rispetto a quello di partenza, e null’altro che questo.
In questa sua istantaneità essendo immediatamente in tutta la contiguità spaziale tra i due, oppure in un’ulteriorità discontinua. Questo valendo in virtù del suo limite corporale, il quale la fisserà ad una corporeità, o quella comunemente detta tale e percepibile, oppure quella apparentemente immessa in uno spazio vuoto, ma affatto pregno ed identico ad un corpo ridotto ad un minimo inferiore e liminale di qualificazione, la quale la renderà affatto irrilevabile sotto il riguardo sensibile, almeno quanto a noi uomini comuni, che non siamo radicati nella conoscenza e nella trascendenza.
Sarà in questo modo che la luce procederà di livello in livello, affatto perspicuamente, ad un’istantaneità che nulla avrà a che vedere con i modi banali di un moto corporeo, bensì essendo da riferirsi ad una discesa dalla trascendenza. Tanto che non verrà d essere certo fuori luogo l’asserto di Tommaso d’Aquino quanto all’istantaneità dell’accadimento dei suoi stati inferiori, non successivi in un tempo determinato, attestata questa istantaneità com’essa sarà dalla sensibilità umana, senza dover ricorrere a nessuno di quegli strumenti insignificanti di rilevazione artificiale di cui sopra.
Essendo questa percezione immediata l’unica a dovere giudicare a questo medesimo riguardo, o piuttosto, a dovere essere rilevata e tenuta in considerazione, l’unica che abbia a che vedere con la significazione trascendente dei sensi, con i suoi vari modi, e non certo con assunti di seconda mano, che ne leghino l’ascesa, riportandola ad una trascendenza mediata, come dicevamo, dalla sua discesa infera, stante il fatto che ci si riporti in ogni caso ad una percezione sensibile. Com’è il caso questo per l’uomo comune, con certo per quello che sia radicato nella conoscenza e nella trascendenza.
Indubbiamente varrà, a questo medesimo riguardo, l’asserto acuto di Evola, il quale correttamente imputa alla scienza moderna e contemporanea il delitto dello svuotamento completo da ogni significazione trascendente immediata, vale a dire, dallo statuto significativo del segno stesso, riducendosi ad un modo di spettri immaginali, astratti e disincarnati, oppure a corporeità affatto disanimate ed in definitiva illusorie, trasformandovi quelle che erano invece detentrici della funzione dell’ascesa alla trascendenza ed ad Iddio, sia magnificato ed esaltato. Bella trovata questa, in effetti!
Questo essendo in definitiva il tanto millantato progresso contemporaneo!”Quando un grave è adagiato, la si posa”! Questo è dato di sentire millantare come scoperta sublime! È a questo è arrivato il genere umano! Tale da giustificare perfettamente l’asserto di Guenon, per il quale la scienza moderna e contemporanea non si ridurrà se non all’avulsione dai significati superiori trascendenti, a tutto favore di quelli inferiori, materiali o tellurici ed inferi che essi siano, essendo quest’ultima differenza il segreto della differenza tra modernità e post modernità, sempre riferendoci a Guenon.
Quanto poi alla pretesa dello Schuon sulla necessità di una superiore comprensione di tutti questi fatti, essa non si ridurrà in realtà se non a quanto avevamo già detto in precedenza, vale a dire, a riconoscerne la significazione tellurica ed infera comune. Tale che per questo tramite, e solo per esso, come sarà noto peraltro agli uomini radicati nella conoscenza e nella trascendenza, ci si potrà ricondurre al divino, senza tenere in nessun conto una loro presunta e pretesa separazione, del tutto velleitaria, da ogni superiorità di significato, che è invece quella da cui non si potrà in effetti prescindere.
Quello che vale per la luce, con le sue peculiarità di cui sopra, si estende peraltro a tutto un insieme di varie entità corporee. In effetti ogni qualsivoglia corporeità sarà suscettibile, anzi essa sarà doverosamente tale, di quello statuto di significazione che ne giustificherà l’esistenza stessa, altrimenti oscura ed affatto inintelligibile, come un nulla puro. Ma alcune realtà verranno ad essere tali in un senso affatto privilegiato. In primo luogo la luce, della quale avevamo appena detto, qualificazione divina superiore della quale ci dice il Sacro Corano, esprimendone la prima discesa trascendente.
Che le tradizioni musulmane dei Puri esenti da fallo e da colpa, la pace su di loro, riferiscono all’emanazione prima dell’Essenza Divina, Luce essa Stessa in senso supremo, luce che viene ad essere l’alter ego dell’intelletto primo agente. Oppure similmente la Luce taborica, quanto alle tradizioni dei Cristiani d’Oriente, nella quale si trasfigurò, e si trasfigura sempiternamente il corpo glorificato di Gesù e dei Nunzi Divini, la pace su di loro, a renderli visibili anche corporalmente nella loro stessa trascendenza ed eminenza, oltre che nella loro eminenza intelligibile, così come afferma Gregorio Palamas.
Tanto da rendere ragione in questo modo della sua discesa di livello in livello, dall’Essenza Divina, alla sua produzione prima, l’intelletto agente, alle determinatezze fisse, gli esemplari platonici, e quindi oltre, di livello in livello, senza nessuna discrepanza risolutiva che abbia ad inficiarne lo statuto eminentemente trascendente. Anche la volgarissima luce di una semplice lampadina, anche le fosforescenze radioattive inferiori, anche la stessa luce spettrale dell’Inferno, della quale ci dice Dante, tutto quanto procederà da quella medesima produzione prima, senza nessuna soluzione di continuità.
Ridurre dunque la luce ad alcunché di meramente corporale, con tutte le sue connessioni e commistioni varie, senza prescindere da ogni qualsivoglia mediazione inferiore che dia ragione delle successioni temporali, od ancor peggio, ridurla del tutto ad uno spettrale e disincarnato campo magnetico, mera astrazione numerica insussistente, in preteso immaginario movimento, sarà il peggior servigio che si possa rendere alla conoscenza, a quella reale, non a quella fittizia, falsandola affatto velleitariamente. Le cose, a nostro modesto avviso, non stanno affatto così, tutt’altra essendo la realtà della cosa stessa.
Con il che, quello che ci verrebbe gradito, sarebbe non la cacciata per le vie brevi di questi abomini dai vari insegnamenti, in primo luogo da quelli universitari, ma piuttosto il fatto di presentare ambedue le versioni liberamente, secondo le norme dell’intelletto, non delle urla, delle minacce, delle falsità, dei luoghi comuni, della propaganda, e dei partiti presi. Preparando le giovani intelligenze a prenderle in esame entrambe disinteressatamente, a confrontarle e giudicarle, essendo prevedibile quale dovrà essere il giudizio finale per tutti gli intelletti liberi e sani, “sine ira nec studio”, per dirla con Tacito.
Ai nostri giorni s’insegnano obbligatoriamente nelle università e negli istituti superiori inferiori, non solo le farneticazioni del Newton e le immaginazioni di Galileo, ma anche le invenzioni gratuite dello Einstein, così come le elucubrazioni quantistiche e quantorelativistiche, e noi non sappiamo di altro, di ufficiale almeno, fatte passare per sublimi colpi d’ingegno, come fossero realtà indiscutibili e comprovate, la qual cosa sarà il fatto più grave. Senza sottoporle a nessun vaglio, guai a metterle in discussione, come osserva giustamente il Waldner per la relatività einsteniana.
Anni or sono, mi venne fatta cortesemente l’offerta d’insegnare le scienze naturali, la cosiddetta “fisica”, con vocabolo ellenico ed aristotelico, nelle prestigiose università iraniane. Università peraltro assai più serie e valide delle occidentali in genere, tanto strombazzate, a cominciare da quelle più in voga, quelle americane ed inglesi, luogo di diporto per ricchi e potenti, che vi apprendono a coltivare le preziose amicizie ivi acquisite, e poco altro, ammesso e non concesso che ci sia altro da apprendere. Ci asteniamo qui per pudore dal dire qui dei tanto millantati premi Nobel che vi attecchiscono in abbondanza.
Declinammo gentilmente e con sincera riconoscenza l’invito assai cortese ed apparentemente prestigioso, per non dovere in seguito essere costretti, mercé del nostro impegno ufficiale previo, ad insegnare delle corbellerie ai poveri studenti malcapitati, senza avere la possibilità istituzionale di metterle in discussione, Galileo, Newton, Maxwell, Einstein, Heisenberg, Schrodinger, e così via, come dicevamo. Senza che nella nostra disgraziatissima ed infelicissima Italia mi siano mai state fatte simili offerte, del che mi sento di potere addirittura menare onore e vanto, in tutta modestia.
Dicevamo dunque che la questione che riguarda la luce, concerne anche in generale in primo luogo i segni divini sensibili, contrassegno universale della realtà creata, ed in particolare riguarda alcuni di loro, i quali più perspicuamente rendono nella sensibilità il riferimento trascendente e divino, com’è ad esempio, oltre che per la luce, anche per l’oro. Vale a dire, l’oro degradato a semplice strumento di una ricchezza meramente corporea, del tutto avulsa, e questo non solamente per gli Ebrei tralignati, dal beneficio divino, il quale gli sarebbe invece ineludibile, non fosse per l’arbitrio umano, che lo rende potenza infera degradante, al di là di ogni sussistenza implicita.
L’oro dunque, ridotto prima a mero corpo, abusato e quindi addirittura alterato, dopo l’abuso prevaricatore della sua velleitaria assenza di significazione trascendente, da quel Re Filippo il Bello usurpatore, che lo rese truffa, dopo che fu reso solamente corpo. L’oro privato poi anche della sua ultima significazione effettuale di valor corporeo, privato che fu del suo valore trascendente, almeno velleitariamente, e di qui sempre più in basso, di preteso e presunto progresso in preteso e presunto progresso, sino all’inferno, od al preinferno, che dir si voglia, della postmodernità prevaricatrice.
Vale a dire, fino al punto di dare luogo all’orrore delle monete materiali dal valore meramente nominale, del tutto prive di valore corporeo intrinseco, quindi alle monete cartacee, poi al dollaro aureo, vale a dire, convertibile in oro, poi al mero dollaro senza nessuna convertibilità, ed al tempo presente, agli orrori innominabili delle varie carte di credito. Le quali ultime starebbero per cedere il posto alle monete virtuali, o non si sa che cosa possano essere, di un mondo meramente informatico, forse uno degli ultimi residui discendenti prima del contrassegno della bestia apocalittica e della dissoluzione finale.
Quanto sarebbe invece più utile, a questo medesimo proposito, invece delle solite equazioni astratte, uno studio approfondito a questo medesimo riguardo, avvalendocisi di una scienza sacra, orientata ad Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, per mezzo dei Suoi segni, scienza fondata sul Vaticinio dei Nunzi Divini, oramai purtroppo affatto obnubilata da un’altra, successiva nel nostro tempo, ma vecchia come Lucifero, affatto volgare, abietta, ed addirittura infera! Come sarebbe invece utile avvalersi della nozione e della realtà del beneficio divino anche corporeo, non solo intellettuale e trascendente!
Per poi traslarlo alla trascendenza ed all’eminenza intellettuale col Vaticinio, senza affatto renderlo un che di velleitariamente ed illusoriamente a sé stante, occasione di ogni prevaricazione, a procedere da quella giudaica prima, e di Filippo il Bello poi, entrambe contro l’autorità spirituale dell’Occidente, ed ancor più per via di quella di Muhawia, che Iddio Altissimo lo maledica e lo sprofondi, che fece uso perverso della previa obnubilazione, dovuta alla prevaricazione che si ribellava alla derivazione del potere temporale dall’autorità spirituale, com’è invece volgarità contemporanea comune.
Avvalendosene dei frutti venefici, per infliggere al diritto divino della Famiglia immacolata del Nunzio Divino benedetto il penultimo colpo, quello contro Hasan, dopo quello contro Alì, sino all’orrore perpetrato contro Husain, la pace su di loro tutti. Colpi dai quali ancora siamo in attesa di riprenderci, conformandoci alla Volontà divina del palesamento dell’Atteso Ben Guidato rettificatore. Essendo qui il caso di chiederci quale sarebbe stata l’umanità col suo progresso reale, e verticale, e trascendente, invece che fallace, ed orizzontale, e corporeo, se avesse accettato la perfezione del Vaticinio in Alì, e nei suoi discendenti immacolati, la pace su di loro.
Quanti annessi avrà dunque la dottrina trascendente della ricchezza e dell’oro, così come degli altri metalli preziosi, assieme a quella della luce, ridotta nel nostro tempo infelice, siccome già dicevamo, da dono divino ed ostensione divina a mero strumento dissolutivo infero, con tutte le sue vane e ridicole equazioni. Tanto da giustificare, a questo medesimo riguardo, gli asserti di uomini almeno in parte illuminati come Evola e Guenon, e dell’Imam Komeini, che Iddio Altissimo n’esalti il rango e n’estenda l’ombra, quanto all’assoluta imprescindibilità della trascendenza nella scienza della realtà.
Dono peraltro questo conforme a giustizia nella sua stessa qualità di dono divino, tanto che non tutti ne saranno degni, e che non tutti ad essa si dovranno abbassare, pure nella sua eminenza, ma o i detentori benefici, o anche quanti sappiano renderla proficua, od essendo avulsi da essa nella loro contemplazione trascendente, oppure nella sua ricaduta a pro della Rivelazione. Tanto da addurla, nel primo e nel secondo caso, ad un beneficio, ad una produzione non inutile e velleitaria, come avviene disgraziatamente ai nostri giorni, ma significativa, sempre in definitiva a pro della trascendenza.
Beneficio dunque, che sarà tale da condurre l’uomo, nelle sue varie dignità e nelle sue varie vocazioni, su quelle vie dell’ascesa della quali Iddio Altissimo, ne siano esaltati i Nomi, è il detentore, siccome ci dice il Sacro Corano. Tutto questo sul fondamento dello statuto significativo dell’oro nel verso della trascendenza, uno dei segni d’Iddio Altissimo, sia benedetto e glorificato, i segni dell’orizzonte del mondo nella loro universalità, corrispettivi dei segni personali all’interno dell’essere umano, siccome recita il Sacro Corano, ma segno eminente, nella stessa maniera della luce, come dicevamo.
Non più il fiorino di Firenze, oppure la sterlina d’oro, ridotta anche a mero monile donnesco, significativa dell’immondo potere prevaricatore britannico, ma l’oro siccome segno eminente di dignità trascendente e divina, a procedere dalla regalità legittima e sacra. Tutto questo sarebbe da svilupparsi, come dicevamo già prima, sul fondamento del Vaticinio, dell’intelletto da esso illustrato, tanto da dare agli uomini una scienza reale, e regale, non mere equazioni ed elucubrazioni astratte. Al cospetto della quale scienza, già dicevamo, risulterebbe tutta la bassezza di quella moderna e contemporanea.
Ma quale dovrà essere il fondamento di tutto questo? Il fondamento di tutto questo, in ogni caso, dovrà essere la scienza dell’unità, quello che in lingua araba, nel linguaggio della tradizione muhammadica e della sua Gente pura, viene detto il “tawĥīd”, vale dire, l’unificazione”. Che nulla avrà a che vedere con le tante velleitarie unioni di questi nostri giorni, non essendo opera umana, soprattutto nel senso di questo nostro uomo tralignato, ma bensì atto divino, per il tramite dei suoi intimi, e sulla scorta dei suoi approssimati. Nulla a che vedere con l’Unione Europea, gli Stati Uniti, e le Nazioni Unite.
Ora questa unità sarà il fondamento di tutto. Non facciamoci qui ingannare dalle precedenti molteplicità divine affatto tralignate, che nondimeno ne derivavano, quantunque con quello che fu il pur meritorio tentativo di significazione trascendente e divina dei platonici, da Socrate e da Platone stesso, sino a Plotino, sino a Scoto Eriugena. Che tentarono di reinnestare sul tronco dell’Identità e dell’Unità Divina, conformemente alla sua stessa origine, la molteplicità divina tralignata, la molteplicità divina non a sé stante, ma significativa dell’Uno, e quindi via al Suo stesso conseguimento superiore.
Tanto che dovettero cedere il passo, pure nella loro nobiltà, all’avvento della Cristianità e dell’Islam, ad un radicamento più esplicito nel verso supero, ed anche nel verso della sua popolarità e comprensibilità comune. A dispetto delle deviazioni d’entrambi, della separazione paolina dalla Legge Rivelata, a pro di una morale personale, e del rifiuto omarico della dignità onnicomprensiva della Famiglia immacolata dell’ultimo Nunzio Divino. Tutto questo dopo l’insuperbimento e l’empia prevaricazione mondana del mondo giudaico, che rovesciò le promesse della fine dei tempi in un delirio di potere mondano.
Tentativo assai nobile quello platonico, ma oramai ridotto ad una minoranza illuminata di sapienti, che non poté opporsi, né ne aveva ragione, ad una superiore popolarità, radicata nella presenza attuale di un messaggio trascendente. Quantunque la migrazione degli ultimi platonici da Atene in Persia alla vigilia della sua islamizzazione, dopo l’editto di Giustiniano contro di loro, così come il comune Maestro Ammonio di Plotino platonico, e di Origene cristiano, facciano fede in definitiva della loro convergenza superiore, a dispetto di violenze sciagurate, come l’omicidio di cui fu vittima Ipazia.
Cristianità ed Islam erano dunque radicate in un messaggio attuale e perspicuo, non soltanto in un’elaborazione sapienziale personale, quantunque nobile ed ispirata. Ora quello dell’unità, siccome dicevamo, è un principio universale. In primo luogo derivando dal calarsi dell’intelletto in quella ragione discorsiva ed argomentativa la quale ne farà uso a sua volta. Calarsi immediato, tanto che essa ne rende e n’esprime in sé la previa intuizione esistenziale immediata, identitaria e trascendente, ispirata che essa sia dalla Rivelazione divina, che la esprime eminentemente ed infallibilmente.
È dall’Unità, nelle sue varie articolazioni qualitative superiori, non certo dalle varie adduzioni esterne aristoteliche e post aristoteliche, che andranno calate le molte conseguenze razionali subordinate, per così dire “scientifiche”, e ci si perdoni l’uso di un termine purtroppo oramai abusato e squalificato, se la scienza verrà ad essere appunto il calarsi della trascendenza e dell’Unità. “Di’, Egli è Iddio Uno”, recita il Sacro Corano. Tanto che islamicamente Iddio stesso, sia magnificato ed esaltato, sarà in lingua araba “ºālim”, vale a dire “Sciente, ovverosia “Detentore della Scienza”.
Nel mentre la conoscenza sarà annessa di converso ad un’ascesa umana al divino, com’è anche nella dottrina platonica, in ragione dei due archi dell’ascesa e della discesa, la quale ascesa finirà per parte sua col rendere l’uomo superiore alla scienza inferiore, per la sua portata di salita nel verso della trascendenza divina. E per un altro verso lasciandola inferiore a quella culminazione, che fa sì che Iddio stesso, sia magnificato ed esaltato, venga ad essere “Sciente”, a prescindere peraltro dalla scienza, sempre a sua volta superiore ed umanamente inattingibile, degli Intimi divini, nella loro contiguità a Lui.
Non si tratterà dunque di un principio ingannevole, di quelli meramente argomentativi e discorsivi, avendo esso a che vedere invece con quell’intelletto, funzione superiore, che già per Tommaso d’Aquino era latore di principi addotti alla ragione discorsiva ed alla sua “gamba di legno”, per dirla con Mawlawi, ma tale essendo solamente lasciata che sia velleitariamente a sé stessa. Nulla di tutto questo allora, tutto l’opposto. L’intelletto dunque vedendoli presenzialmente, e trasferendoli quindi alla ragione, che ne farà uso, tanto da farli apparire, a chi sia disattento, come cose sue.
Dall’Identità Suprema dell’Essenza Divina deriva dunque la prima pluralità, quella dei Suoi attributi, per il tramite della Sua profusione santissima, in arabo “al fayďu-l-muqaddas”, della quale sarà latrice l’Intimità assoluta, quella donde procede quella luce seconda pura, profusione della Luce Suprema Essenziale, della quale ci dice il Sacro Corano. Attributi quindi, e nomi stanti ad un livello subordinato, quelli in quanto considerati di per sé stessi, questi siccome considerati invece nella sostanza a cui ineriscono, unici nell’unità di questa, derivata dall’Unità Prima, ed intimamente legati agli atti divini, ad essi intimamente annessi, siccome loro aspetto formale ulteriore.
Atti che non saranno se non le “energie” divine increate della Cristianità d’Oriente, vale a dire, della dottrina ispirata palamita, tramiti discendenti del procedere inferiore divino. Donde provengono in primo luogo le entità della pluralità sopraformale degli esemplari platonici, vale a dire, le determinatezze fisse dell’Islam, che procedono da quell’unità inscritta in una pluralità unica di formalità distinte, vale a dire, l’unicità divina subordinata all’Essenza, e sopraordinata al creato ulteriore, per darsi nei loro successivi livelli discendenti, in un procedere crescente di pluralità numeriche di unicità riduttive dell’unità superiore, così come di discendente semplicità e distinzione.
Sarà da questi dunque, a prescindere dall’inattingibilità assoluta dell’Essenza Divina, che risolve in Sé ogni conoscenza, se ci atteniamo al principio di Tommaso d’Aquino, peraltro perfettamente conforme alla procedura di Molla Sadra, per cui la scienza inferiore avrà inizio laddove finisce quella superiore, il principio di questa dalla fine di quella, l’intuizione trascendente si preponendosi, per Molla Sadra, all’argomentazione discorsiva. Da questi andranno dedotte in primo luogo le varie pluralità sopraformali discendenti, i livelli superiori dell’essere, esemplari e determinatezza fisse.
Donde si addiviene all’individuazione corporea mercé della materia prima, preceduta dall’immaginalità sottile di un mondo non univocamente addotto alla materialità liminarmente dissolutiva, mercé di un suo residuo ad essa non aderente. Quindi alla corporeità, sempre sotto questo medesimo riguardo della successiva adduzione formale individuante alla liminarità della dissoluzione, e da questa alla dissoluzione incoata immaginale tellurica, con il suo residuo non risolto, quindi alla mera dissoluzione infera, cui non resta d’esistente se non la forma larvale meramente negata, solo in quanto tale sussistente, premessa quest’ultima del residuo estremo dell’insussitenza del nulla puro.
Sarà dunque dall’antecedenza esemplare suddetta, com’è per Platone e Plotino, ed Ibn Arabi e Molla Sadra, e gli altri grandi Sapienti d’Oriente e d’Occidente, che andranno dedotte e le formalità inferiori, e quindi quelle sottili e corporee nell’arco della discesa, in arabo il “qaws”, ovverosia “arco”. Così come di converso sarà da queste ultime di converso che si ascenderà, com’era per Socrate, conformemente alla significazione del segno creato, nell’arco corrispettivo dell’ascesa. Né deve confondere ed inquietare il fatto che in questo modo si avrebbe un’apparente petizione di principio.
Petizione di principio per il quale si ascenderebbe per inversione a quello che è già disceso, perché l’intuizione socratica saprà ravvedere nei segni vari, com’è appunto per lo stesso Sacro Corano, la necessaria discesa divina previa, vale a dire, l’arco creativo, donde si risalirà, nell’arco dell’ascesa conoscitiva dell’intelletto, alle trascendenze successive ed all’Essenza Divina. Perché Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, sempre dovrà e precedere, e seguire, ed apporsi, ed essere il tutto, per gradi successivi, ovverosia il tutto della Sua profusione, in cui si riverbera per gradi la Sua Stessa Identità.
È a questa stregua che risulta il principio universale, conculcato da molti ignoranti, specialmente in questa nostra sventurata età di tenebra, dell’Unità Divina. Unità la quale si rifletterà di livello in livello dell’essere, a contrapporsi a quello che velleitariamente la nega, sia pur derivandone, per ridursi quest’ultimo a spettro inane, e a mera negazione, siccome già dicevamo prima, a dispetto della sua pretesa esistenza piena. Esistenza la sua che non sarà se non meramente negativa, come negazione di un essere pur sempre uno, quanto ai vari livelli dell’essere, e quanto al nostro medesimo livello.
Nelle contrapposizioni velleitarie, talvolta illusoriamente trionfanti, nei confronti di quei mondi superiori, nella dissoluzione infera che li nega velleitariamente, riportandoveli illusoriamente e velleitariamente, sino all’unità rovesciata estrema, affatto insussistente siccome negazione senza un estremo negato, negazione che ritorna da sé stessa su sé stessa negando, quella del nulla infero puro. Sul quale volteggiano le varie negazioni formali ed individue, nella loro pretesa negazione delle forme pure e di quelle individue, delle loro stesse forme originarie, il mondo inferiore dei diavoli e dei reietti.
Unità Divina per la quale, al di là della Sua Stessa Unità, seppure variamente atteggiata nella sua profusione, non vi sarà unità assoluta, essendovi il diverso dell’essere di cui Platone, con tutte sue le conformazioni varie tratte dal Principio. Ora dall’altro canto, com’è che sarà, a questo nostro medesimo riguardo, che questa stessa unità verrà a darsi, anzi a negarsi, in questo mondo spettrale ed illusorio della razionalità lasciata velleitariamente ed illusoriamente a sé stessa, e della a lei concomitante sperimentazione priva di conclusione? In che modo ed in che misura questo potrà avvenire?
Il pensatore, o sedicente tale, protestante di origine giudaica Karl Popper, collaboratore ardente dei vari santuari della mondializzazione inumana e subumana, come egli stesso afferma senza il pudore di celarne il suo orgoglio, come il Centro Rockfeller, e strenuo ammiratore dello Einstein, non si capisce a che titolo narra che questi ebbe l’ardire di equipararsi addirittura a Parmenide, di cui presumiamo che a rigore nulla o quasi nulla sapesse. Tanto da ridurne l’essere Puro, o da subordinarlo a tutto quell’insieme di assi cartesiani di riferimento, per i quali le leggi di natura sarebbero invarianti.
Ora andrà del resto riconosciuto, che sia nella relatività particolare, sia in quella generale vale un principio di invarianza delle leggi numeriche, spacciate per naturali, principio il quale peraltro non sarà nulla di nuovo sotto il sole, valendo qualcosa di simile anche per il principio generale d’invarianza nella relatività cosiddetta galileiana, il quale sarebbe valido, del quale però lo stesso Galileo abusa, dandogli una portata generale traslata affatto fuori luogo. Essendovi indotto necessariamente dalla sua eccessiva corporeità, alla quale tutto andrà applicato, ed a cui tutto andrà ridotto del suo mondo.
Tanto da traslarlo anche alle sue stelle, ai mondi superiori e celesti, vale a dire, in definitiva, ai livelli superiori dell’essere. Che egli pretendeva e presumeva osservabili nientemeno che con un cannocchiale, come già dicevamo prima, peraltro da lui non inventato, come di solito viene creduto. Senza rendersi conto del fatto, che detta sua invarianza era spiegabile solamente grazie al principio sopraordinato dell’invarianza dell’essere corporeo derivato, per ognuna delle parti del quale dovranno valere esistenzialmente le medesime leggi, ivi inclusa quella dell’invarianza del moto.
Per lo Einstein la cosa è ristretta ad una singola velocità, quella della luce, assunto del resto della sensibilità che dovrebbe essere affatto immediato, la quale egli pretendeva traslarsi invariantemente a qualsiasi insieme di riferimento, tanto però da introdurre delle aberrazioni, vale a dire, la dilatazione del tempo e la contrazione dello spazio, peraltro non rilevabili dalla sensibilità immediata. Aberrazioni che dovrebbero per parte loro rendere così conto dell’invarianza pretesa della velocità della luce, dal canto suo affatto insussistente, com’è che avevamo già messo in rilievo in precedenza.
Ora la sciocchezza sesquipedale, stranamente non rilevata da nessuno dei nostri due autori, riguarda non tanto la pretesa einsteniana d’imporre alla natura, talmudicamente a loro avviso, non soltanto talmudicamente a nostro, delle presunte e pretesi leggi in essa niente affatto rilevabili, quanto piuttosto la pretesa assurda di ridurre lo spazio ad una misurazione puntuale. Che varino i punti di misurazione nello spazio e nel tempo, non dice in effetti nulla quanto all’assunto assurdo di cui sopra, del tutto inconsistente, se non addirittura ridicolo, almeno in questo caso, della loro dilatazione o contrazione.
Procedendo dalla premessa per la quale lo spazio, così come anche il tempo, sarebbero delle astrazioni affatto prive di materia, di per sé stesse sussistenti, perché in effetti, accettato che sia questo assurdo, la maggiore o minore differenza tra due punti, non altererebbe il fondo spaziale astratto e sussistente nel quale questa medesima misurazione venga effettuata. Essendo dunque questo il punto chiave, che darà tutta la misura dell’inconsistenza delle pretese ridicole dello Einstein quanto a quello spazio ed a quel tempo, i quali continuerebbero invece a sussistere affatto invariati di per sé stessi.
Sarà concepibile sì una dilatazione od una contrazione dello spazio e del tempo, ma soltanto con riferimento ad una materia primordiale non percepibile sensibilmente, come prima dicevamo, la quale lo pervada, anzi gli s’identifichi. La quale materia, ridotta che essa sia a quell’elemento liminale della dissoluzione del quale dicevamo poc’anzi, presenterà vari gradi di riduzione formale ed approssimazione al nulla, oppure di sovrapposizione formale anteriore ad esso. Nulla che abbia a che vedere con una misurazione puntuale con orologi o carte millimetrate, come pretende lo Einstein.
Anzi aggiungiamo noi, non si daranno solo quello sprofondamento e quella superiorità formali di cui sopra, che daranno luogo ai mondi sottili superiori, ed a quelli inferiori tellurici, ma si avranno inoltre un’anteriorità ed una posteriorità di totalità, tali che l’antecedente abbia ad essere la premessa esistenziale, o la potenza esistenziale del secondo mondo. Tanto che, dato che sia uno di loro, esso sarà l’atto di quello che lo precede, e la potenza di quello che lo segue. Essere di essere di essere dunque, niente che abbia a che vedere a che vedere con la sciocchezza contemporanea dei “mondi paralleli”, definiti da elementi meramente numerici, e non effettualmente esistenziali.
Vale a dire, che l’assunto suddetto darà ragione in un senso rigoroso ed esistenziale, di tutte quelle immaginazioni fuorvianti sui pretesi mondi adiacenti, o “paralleli”, dei quali tanto si va ciarlando ai nostri giorni, ignorandone del tutto l’essere e la ragion d’essere, in assenza di un principio deduttivo superiore valido. Il quale sarà sempre, anche in questo caso, come in tutti i casi, quello universale dell’Unità Divina, dalla quale i mondi inferiori si traggono tutti, ed in una guisa esistenzialmente incessabile, tanto da dare ragione sia degli spazi adiacenti, sia dei tempi e anteriori e successivi.
A questo punto, che ne rimarrà del nostro povero Einstein, proclamatosi Parmenide nientemeno? Una velocità che si trasli da una triade ad un’altra di assi cartesiani, peraltro in sostanza, con l’insieme delle leggi del Newton? Tutto qui? È un po’ poco. Sarà questa la sua unità, di fatto ridotta ai minimi termini? A questo si ridurrà il suo preteso ingegno superiore giudaico, e non solamente? Siamo convinti che i rabbini ne sappiano assai più di lui. La cosa non andrà certo meglio per la sua relatività generale, la quale tanto manda in visibilio sciocchi, sprovveduti, ed insipienti, come fosse l’estremo della sapienza.
Osserva l’autore della nostra introduzione, il Waldner, che il principio suddetto d’invarianza non varrà solamente per la velocità, ma anche, numericamente dicendo, per la sua derivata, come sostiene del resto lo stesso Einstein, fondandovi l’edificio della sua relatività generale. Ora tanto per cominciare, la derivata del calcolo infinitesimale newtoniano, come il limite, del quale è un caso particolare, sarà una mera immaginazione astrattiva insussistente, com’era anche per il punto di tangenza di Galileo di cui dicevamo sopra. In secondo luogo, il nostro autore fa un’altra osservazione preziosa.
Il fatto sarà, che limitarsi alla sola derivata seconda, vale a dire, all’accelerazione puntuale di questo immaginario numerico, sarà un mero arbitrio, essendo numericamente ed astrattamente possibili indefinite derivate successive di grado numerico superiore. In secondo luogo, per l’arbitrario secondo principio della dinamica newtoniana, la derivata seconda darebbe luogo ad una forza pretesa causante, la quale darebbe ragione, conformemente al primo principio, meramente ripetitivo, del flettersi vario della traiettoria del suo punto presunto inesteso nel suo spazio presunto vuoto.
Ed entra qui dunque in gioco un argomento ulteriore, che sarà quello dello spazio curvo. Nelle nostre rappresentazioni astratte figurate, che risalgono nella loro forma definitiva ad Euclide, la distanza dei due punti viene definita dalla radice quadrata della somma dei quadrati delle misure dei due lati adiacenti all’angolo retto di un triangolo rettangolo, il cosiddetto “teorema di Pitagora”, anche se reputiamo che Pitagora intendesse ben altro. Nessun coefficiente ulteriore all’unità dei membri di quella somma vi compare. Lo spazio, in ragione delle sue distanze, viene ad essere così qualcosa di retto.
Ma se questo medesimo coefficiente unitario varia, ecco allora che la linea retta dello spazio diventerà una curvatura, e lo stesso spazio mercé delle sue distanze diventerà curvo. Tanto che i coefficienti non unitari potranno farla così da “causa”. Da “causa” nientemeno? Sarà questo dunque il bandolo della nostra matassa, l’elemento affatto spurio del quale tenere qui conto. Che cosa sarà mai dunque una causa? Com’è che essa andrà rilevata correttamente? Osserviamo in primo luogo che taluni autori, come l’Imam Komeini nel suo commento all’Aprente, attribuiscono alla causa l’esteriorità, negandola alla identità omnipervasiva, come sarà l’irradiazione divina, in arabo “tajallī”.
Osservavamo in precedenza, che qui dire di cause non avrà nessun senso, non avendo nessun senso una causa corporale, al di là di ogni equivocazione, come pretendeva il povero Newton in tutta la sua insipienza e l’inconsistenza e banalità della sua seconda legge. Ed avendo ancor meno senso, se possibile, una mera causa numerica astratta, ancora più immaginaria, affatto spettrale. Eppure la curvatura dello spazio sarebbe, a dire dello Einstein, addirittura la causa dell’attrazione corporea, vale a dire, della “legge di gravità”, avente per lui una portata numerica, non esistenziale.
A che cosa debba essere ricondotta la causa attrattiva, sulla quale tanto si è equivocato, quando essa venga intesa affatto correttamente, in un senso esistenziale, sarà presto detto. Basterà intendere la terra non come una mera palla corporea, come sarebbe invece per la semplicità e per l’insipienza dei moderni e contemporanei, ma invece come uno stato dell’essere, vale a dire, come un suo livello discendente, inferiore e liminale, se non addirittura infimo, prima della dissoluzione esistenziale, incoata oppure no che essa sia, che darà luogo a mere negazioni, non certo ad esistenti in senso proprio e stretto.
Materia che sarà dunque tale da attrarre a sé gli elementi, staccati che essi siano dalla loro formalità superiore pura, sopramateriale e non individuata. Elementi che di converso, staccati che si siano dalla loro inferiore individuazione, saranno invece esistenzialmente ed irresistibilmente attratti verso l’alto, verso le forme pure superne, come osservava nel suo tempo Dante, con un assunto tutt’altro che gratuito ed immaginario. L’esistenza essendo peraltro senza nessuna soluzione di continuità, tale che non vi sia nessuno spazio vuoto intermedio tra l’uno e l’altro livello, nella loro adiacenza.
Lo staccarsi dall’uno o dall’altro verso avrà dunque il senso di una eventualità esistenziale, siccome il passaggio da un livello ad un altro livello dell’essere. Dove sarà da osservarsi, a questo medesimo riguardo, oltre alla completa assenza di soluzioni di continuità, di vuoti esistenziali tra i livelli dell’essere, come dicevamo prima, e come osservano correttamente i Sapienti musulmani, anche il fatto capitale che l’uno e l’altro, o meglio, i vari livelli saranno degli stati, non dei movimenti, oppure saranno anche movimenti, ma in quel medesimo senso esistenziale e sostanziale del quale dice Molla Sadra.
Staccarsi che peraltro, nell’uno e nell’altro dei due casi suddetti non andrà riferito a nessuna presunta e pretesa causa corporea, ma invece a cause antecedenti o trascendenti, nel senso della punizione di una discesa, o del premio di un’ascesa, oppure di un processo esistenziale o creativo, od intellettivo, delle quali quelle eventualmente inferiori andranno intese solamente alla maniera di tramiti, ovverosia di occasioni. Tanto che la terra come già dicevamo in precedenza, verrà ad essere lo stato esistenziale liminale dell’individuazione corporea sotto le forme pure, e sopra le forme negate.
Lo stato della terra essendo previo alla dissoluzione tellurica ed infera, in questa maniera, e solamente in questa, essendo immobile quanto al suo stato dell’essere, non dell’ascesa o della discesa, pur nelle sue variazioni interne. A differenza degli stati celesti trascendenti, in un senso proprio, e stretto, e reale, i quali godranno invece di un moto attuativo, nel senso di procedere, anche al loro medesimo livello d’esistenza, ad essere ulteriormente, vale a dire, a reiterare la loro stessa esistenza ed attualità, dandosi un essere indefinitamente, mercé della purezza della loro forma, che sarà sempre senza non essere.
Ma nel verso del moto della terra immobile, ci si perdono l’apparente controsenso, essa non sarà attuata successivamente, se non nel senso dell’ulteriorità ed anteriorità mondana immobile di cui sopra, ma dando luogo ad un procedere di successive dissoluzioni nel senso dell’inferiorità tellurica ed infera, o di ascese perfettive nel verso della purezza formale. Questioni complesse queste, che andrebbero approfondite alla luce della dottrina dell’essere, e del moto sostanziale sadriano, e della dottrina dei mondi d’Ibn Arabi, non lasciate a sé stesse, tanto da cedere il campo a tutta una serie di assurdi.
Quanto invece all’alternativa possibile dello stato immobile del sole, già preconizzato da alcuni antichi, da Pitagora di Samo a Filolao di Crotone, esso avrà il senso di una superiorità esistenziale sopralunare, quanto alla quale i moti superiori degli astri mobili, e della stessa terra, avranno il senso della dissoluzione, dell’intermediazione esistenziale lunare, e della successiva attualità sostanziale sopratemporale. Nulla di meramente corporeo come per Copernico e Galileo. Avendo il moto della luna non un senso dissolutivo, e neppure di reiterazione perfettiva, ma di mera perennità temporale.
Dove sarà da osservarsi che nel nostro mondo il tempo, nel significato sensibile e corporeo, avrà il senso di una presenza produttiva e dissolutiva, mentre nel senso superiore, o lunare e sopralunare quanto alla terra immobile, o lunare e superiore al sole immobile, avrà il significato di una realtà attuativa che tornerà su sé stessa. Questo a prescindere dai movimenti quanto agli inerenti a quello stato in moto sostanziale, sotto il riguardo di un essere circolare in sé compiuto, corrispondente ai moti interni delle intelligenze celesti secondo Tommaso d’Aquino, che ne definiscono il tempo interno, funzione della loro sempiternità definita dal loro movimento perpetuo d’essere.
Moti entrambi previ all’immobilità superna delle stelle fisse, vale a dire, agli attributi ed agli atti divini sussistenti dei quali avevamo già detto in precedenza, in sé completi sostanzialmente, e sostanzialmente identici nella loro differenziazione formale. Vale a dire, all’intimità sostanziale superna che in loro si attua unitariamente, per via dell’unità, ed unicamente, per via di quella pluralità, vale a dire, nell’unità e nella differenza loro, formale questa, sostanziale quella, previa alla risoluzione suprema ed all’inattingibilità indicibile dell’Essenza Suprema Divina, che in Sé tutto comprende e tutto risolve senza formalità, non essendo possibile darne nessuna ragione.
Tutto questo naturalmente a prescindere da quelle corporeizzazioni già presenti in Aristotele, le quali non faranno se non offrire il fianco alle assurdità delle osservazioni di Galileo, ed alla numerizzazione estrema delle formule semplicistiche del Newton, a prescindere a dall’invarianza del primo, oramai meramente corporea. È come se il cielo reale, fosse stato fatto ricadere da quei due pretesi grandi ingegni, e non solamente da loro, sulla nostra terra, ed ancora più in basso, tenendone conto delle inevitabili conseguenze, vale a dire delle dissoluzioni ulteriori, e delle ulteriori astrazioni successive.
Dov’è ancora da osservarsi, che la nostra sensibilità andrà intesa in un senso puramente significativo, non certo in quello di una mera ricaduta di formule astratte varie, com’era invece per il Newton, e siccome sarà talmudicamente per lo Einstein. Onde il loro senso ultimo, a prescindere dalla loro sensibilità immediata, avrà da essere superno ed ascendente, non certo numerico ed astratto, immaginale e mentale, e discendente, tanto da addurre l’intelletto umano a quel livelli di prossimità adorante ad Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, i quali verranno ad essere dunque il fine ultimo della sua creazione.
Dove sarà da osservarsi ancora, a questo medesimo riguardo, la circostanza capitale dell’incomprensione del numero già da parte di Aristotele, come risulta dalla sua Fisica, vale a dire, di quello di Pitagora, di Platone, di Plotino, e di grandi sapienti musulmani, non certo dello stesso Aristotele, così come dei suoi successori e seguaci. Eminenza la quale verrà ad essere affatto trascendente, e causale nel senso suddetto della necessità della concomitante ed ineludibile superiorità esistenziale. Sola ragione di causa, quantunque esteriore e non intimamente inerente ed identica, come la profusione divina.
La quale nulla avrà a che vedere con gli assunti mentali astratti, con le secundae intentiones, delle quali abbiamo già detto in precedenza, peraltro già riconosciute per tali dallo stesso Aristotele. Il quale peraltro vi riduce il numero, spogliato del tutto che esso sia dalla sua trascendenza, con il quale identificava erroneamente, nella sua Metafisica, quelli invece affatto trascendenti di Pitagora, accusandolo di volere ridurre il mondo a numero, risultato invece ineludibile al quale andranno incontro successivamente i suoi assunti. Essendo un delitto confondere le astrazioni mentali con la trascendenza.
Errore che ci è stato dato purtroppo di rilevare anche in un testo di un grande sapiente musulmano contemporaneo, il quale, in un capitolo di un suo libro dedicato al movimento sostanziale sadriano, asserisce una pretesa identità tra i numeri di Pitagora e quelli di Cartesio, sostenendone una pretesa identità di vedute. Pur avendone in precedenza rilevato la completa astrazione di secundae intentiones, in arabo “intizāº”, vale a dire, “separazioni astrattive”, contrapposte a quel “tajarrod”, che sarà invece il denudamento dalle limitazioni sensibili, al quale faceva invece riferimento. Platone.
Tanto che il medesimo Aristotele ebbe ad intendere persino Parmenide, il sommo Maestro di Platone, vale a dire, il suo Essere, in un senso meramente separativo, tale da offrire il fianco al suo biasimo meramente immaginario, com’è possibile evincere sempre dalla sua Metafisica, siccome di un mondo che si sarebbe lasciato accanto, in tutta indipendenza, il modo sensibile. Com’è peraltro la concezione contemporanea della pretesa e presunta cosiddetta “eteronomia”, della quale ai nostri giorni tanto si va ciarlando, con tanto di biasimi e di scomuniche varie da parte di che se l’è inventata di sana pianta.
Vale dire, dell’alterità separativa pretesa e presunta, nella loro completa incomprensione del nesso esistenziale tra il superiore e l’inferiore, vale a dire dell’inclusione semplice ed eminente, e dell’immagine ridotta e plurificata. Stando così le cose, che ne sarà allora del principio dell’unità dell’essere per i contemporanei in generale, e per lo Einstein in particolare, con tutti i suoi simili? Che ne sapranno o vorranno costoro comprendere? Il nostro discorso si ricollega qui a quanto ne avevamo già detto in precedenza, adducendolo siccome un principio fondamentale onnicomprensivo, donde tutto deriva.
Ne resterà per lo Einstein l’abuso di un traslato della velocità e dell’accelerazione dall’uno all’altro di un insieme di assi cartesiani, limitato arbitrariamente ad una derivata seconda, escludendone quelle ulteriori, come osserva correttamente il Waldner nella sua introduzione. O di una generalizzazione effettualmente indebita di formule astratte, come sarà per un Newton od un Maxwell, o per le fisime delle figurazioni astratte di un Galileo, o per la generalizzazione della formula dell’onda di probabilità dello Schrodinger, o per il principio d’indeterminazione dello Heisemerg, e così via dicendo, di assurdità in assurdità, di astrazione in astrazione, sono molte, e null’altro.
Tanto da ridurre la corrispondenza, se intesa di per sé stessa separativamente, e non nel senso universale e necessario della corrispondenza degli esseri e della loro unità, ad un qualcosa di estremamente limitativo ed inconsistente, del tutto incapace di comprendere tutti i vari livelli, superiori od inferiori che essi siano, di detta equipollenza. Vale a dire, trattandosi in realtà dell’unicità dell’essere, oppure degli esseri, radicata nell’unità degli esseri, o dell’essere, a partire dalla loro Identità Suprema, vale a dire, dall’Essenza Divina, a questo, ed a non altro, riconducendosi la questione della loro corrispondenza e della loro derivazione.
Segno di questa mancanza di radicamento nella conoscenza superna e valida sarà peraltro la pretesa doppia e scissa, le due pretese incompatibili dello stesso Einstein di assumere tutte le sue affermazioni siccome “falsificabili”, come sarà per il Popper, usando il suo stesso linguaggio, suscitandone l’immeritato visibilio, dopo d’averle assunte in un senso arbitrariamente generale, per via di una mera petizione di principio, vale a dire, non dimostrando quello che andrebbe invece dimostrato. E qui le osservazioni fatte dai nostri due autori, il Waldner ed il Thuring, sono indubbiamente preziose.
Merito indubbio questo del Thuring in particolare, quantunque costui, per dirla così com’è, per parte sua, faccia anche una certa confusione tra l’essere astratto ed immaginario, ed il dover essere trascendente, attribuendo indebitamente al primo, in un senso lato, il nome del secondo. In quanto pare che egli ignorasse il dover essere della trascendenza, quale esso è per Platone, vale a dire, di quello che rimane così com’è. Come sarà anche per Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, il Quale è com’era, senza che vi sia nulla oltre a Lui, secondo quello che recita anche una celebre narrazione musulmana.
Il Thuring biasima correttamente il passaggio da cosa a cosa, o da una cosa ad un insieme di cose, proprio dell’esperimento, applicato indebitamente a questo nostro basso mondo della sensibilità, da lui identificato col passaggio dall’essere al dover essere. Che sarà il medesimo dell’”epagoge”, vale a dire, dell’induzione aristotelica, generalità surrettizia del procedere discorsivo, e dell’assimilazione, in arabo “imŧāl”, “assimilazione”, o “qiyās”, ragionamento induttivo, già biasimato a suo tempo dall’Imam Jafar Sadeq, la pace su di lui, e non solamente per quel che concerne le inferenze in ambito giuridico.
L’Imam Jafar Sadeq, la pace su di lui, attribuisce l’induzione a Lucifero stesso, agli inizi stessi della creazione, dopo il suo principio, il quale Lucifero, seppur riconoscendo la creazione divina, Ne trascurava l’onnipotenza. Tanto che egli perveniva indebitamente ad un’inferenza negativa, specularmene contraria ad un’assimilazione affermativa, tra sé stesso e l’uomo, vale a dire, l’uomo perfetto adamico, e prima ancora, e superiore, l’uomo perfetto muhammadico, negandone la dignità superna. Perché una siffatta inferenza verrà ad avere una portata sia affermativa, sia negativa.
Tale sarà in primo luogo il procedere della nostra sperimentazione, della quale avevamo già detto, ma anche di talune argomentazione astratte, le quali vengono prese di peso, ed applicate dovunque, talmudicamente afferma il Thuring, ma solo in parte correttamente, a nostro modesto avviso, siccome già prima dicevamo. Com’è appunto per le formule di uno Einstein, così come per quelle di un Newton, scevre peraltro, va sottolineato, da ogni impossibile portata e controparte sperimentale. Il che darà ragione dell’estensione, così come dell’origine, e della radice indebita dell’assimilazione.
La qual cosa, nel caso delle formulazioni astratte, verrà ad essere in effetti assai interessante. Perché mentre nel caso della sperimentazione si tratterà in effetti di un assunto sensibile, in definiva ingenuo, nell’altro caso invece la cosa potrà far riferimento ad una generalità nota, la quale sia supposta e contrapposta ad un’eventualità anch’essa affatto generale, vale a dire, a due generalità note, siccome sarà appunto nel caso dello Einstein, ed in quello del Popper, per le elucubrazioni vane del secondo, così come anche per le formule immaginali del primo, andando in effetti i due casi d’amore e d’accordo.
Il supporre delle generalità esaustive che si contrappongano e si sovrappongano, avrà più che altro, nelle loro concezioni perverse, il senso di una pluralità affatto arbitraria di universi esaustivi, sia sensibili, sia immaginali, non certo di totalità non esaustive, come nel caso previo dell’esperimento, e come in quello dell’atto e della potenza, e neppure quanto a quello dei cosiddetti “mondi paralleli”. Come sarà invece per certe pretese “logiche” contemporanee, com’è per il Godel, nel significato della più recisa ricusa dell’unità dell’essere, e dell’ordito e della concordia esistenziale.
Non ci si lasci trarre in inganno da certi asserti velleitari dello Einstein che giungeva, a questo medesimo riguardo, ad appellarsi ad Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, nella sua controversia ingannevole con la meccanica quantistica, quando egli, in definitiva un senza dio, lungi da ogni Rivelazione, asseriva che “Iddio non può avere giocato a dadi con l’universo”. Il che si richiamerà in primo luogo alla contraddizione di cui sopra, di pretesa esaustiva, e di accettazione del contrasto e della negazione, ed in secondo luogo, l’assenza di unità essendo sempre contraddittoria, perché non accetta, o non è in grado di comprendere lo statuto esistenziale della contraddizione, nel senso di cui sopra di negazione esistenziale da un principio positivo.
Riferendosi dunque la cosa alla sua pretesa di surrogare il Principio dell’essere con una sua, e non solamente sua, immaginazione perversa, che avrà a che vedere in sostanza con la Sua inversione capovolta in senso caricaturale e dissolutivo. Tanto da proporre un mondo che procede dal nulla con tutti i suoi contrasti in definitiva equipollenti, nei quali ciascuna cosa si proporrà esaustivamente, ma senza nessuna reale preminenza e differenza esistenziale, che quel principio non saprà e non sarà in grado di dargli. La leggenda moderna e contemporanea dell’eguaglianza framassonica, dell’eguaglianza dei rivoluzionari francesi, sarà in realtà antica come Lucifero.
Come sarà invece per la derivazione dall’Essere Supremo Perfetto, che assegnerà ad ogni esistente un suo rango esistenziale, come affermano la Bibbia ed il Sacro Corano, che lo propone o lo pospone, del che l’altra derivazione immaginaria sarà invece affatto incapace. Tanto che lo stesso Einstein, a questo medesimo proposito, invece di dedurre e di proporre un’eminenza esistenziale differente, afferma contraddittoriamente le sue pretese con null’altro che con un presunto gioco divino, che egli ritiene impossibile, nel mentre ne darà la possibilità in un senso simile a quello del Popper, di cui sopra.
Laonde Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, nel suo non giocare a dadi con l’universo, come sosteneva lo Einstein, relega in realtà il gioco stesso tra quelle possibilità regressive, l’essere delle quali consisterà appunto nella loro negazione esistenziale da un principio asserito, il gioco dei diavoli dell’Inferno dunque, e non altro. Fatto il quale per il suo principio inferiore indefinito, scevro di qualità, era impossibile, portando la cosa o ad una compiuta esclusione reciproca, oppure ad un succedersi di esclusioni l’una delle altre, senza che l’essere di una di loro avesse ad imporsi all’essere delle altre.
Nulla in questa presunta e pretesa indifferenza, che abbia a che vedere con i reiterati asserti coranici sul fine divino nella creazione, che avrà a che vedere con il rango esistenziale dei suoi membri. Iddio Altissimo, sia benedetto e glorificato, invece che non potere, ha potere su tutte le cose, ma ad ognuna darà una sua misura, ivi compresi gli errori e le illusioni, che avranno il loro posto nell’ordine universale. Per la Bibbia “omnia in numero pondere et mensura fecisti”, e nel Sacro Corano, “Iddio ha dato a tutte le cose una misura”. Tutto questo nostro discorso andrà peraltro ricondotto ad un’osservazione capitale del Thuring, che peraltro non l’ha sviluppata a dovere.
Quello che il Thuring auspica, peraltro del tutto a ragione, è il ritorno della convergenza tra la scienza della natura ed il pensiero umano. Ma a questo punto si pone una domanda cruciale ed affatto legittima. Di quale pensiero umano, vale a dire, per dirla all’ellenica, di quale “filosofia” si tratterà mai? La “filosofia”, nella sua originale significazione ellenica, risalente a Pitagora, sarà alla lettera l’”amicizia per la sapienza”. La sapienza andrà qui intesa nel senso attribuitole da Tommaso d’Aquino di conoscenza e spiegazione “per causas altissimas”, la forma più elevata di conoscenza dunque.
Ogni altra significazione non darà ragione dell’esigenza primaria suddetta, vale a dire, che non darà per niente ragione di quella sua funzione sopraordinata di guida, del tutto giustamente auspicata dal Thuring, quando venga presa nel suo senso corretto ed eminente. Ogni guida non avrà senso, se non viene riferita ad alcunché di superiore ed eminente, perché altrimenti sarebbe del tutto ingiustificata, se non addirittura assurda e controproducente, siccome di quei ciechi che sono guide di ciechi, di cui favella Gesù, la pace su di lui, nell’Evangelo. Non dovrà dunque trattarsi di nulla di simile.
Ora quello che qui va messo in evidenza, sarà che la conoscenza “per causas altissimas” presupporrà uno stato ad essa equipollente. Per il principio dell’identità esistenziale tra conoscente e conosciuto, che Molla Sadra riprende dai sapienti suoi predecessori, il quale eleva l’uno all’altro, vale a dire qui, la conoscenza alla causa, e la causa alla conoscenza, la conoscenza andrà qui intesa in un senso eminente, tale da rendere conto a sua volta dei quell’eminenza esistenziale, ovverosia di elevarsi a quell’eminenza esistenziale.
Si tratterà di quella che i sapienti musulmani definiscono la “conoscenza presenziale”, donde deriva, almeno in linea di principio, ed alla quale dovrà essere subordinata la “scienza consequenziale”, in lingua araba “al ºilmu-l-ĥuşūlī”, vale a dire, discorsiva ed argomentativa. Alla prima corrispondendo l’immediatezza intuitiva dell’intelletto anche in Tommaso d’Aquino, alla quale consegue la ragione, il che sarà perfettamente corrispondente alla distinzione sadriana tra intuizioni intellettuali eminenti, ed argomentazioni razionali, della qual cosa avevamo già detto anche in precedenza, repetita iuvant.
Quello che andrà qui messo in rilevo, sarà in primo luogo l’infallibilità relativa e condizionata della presenza conoscitiva, non del tutto scevra da possibili commistioni sottili fuorvianti, nel corso del suo ascendere alla purità compiuta degli attributi e dei nomi divini di per sé stessi sussistenti, corrispettivo del fungere dell’uomo perfetto muhammadico ed adamico. Sarà a questo fastigio che andrà fatto riferimento, sia pure nella sua inattingibiltà quoad nos, che ne definisce univocamente e ripetutamente l’esistenza, tale che l’inferiore e subordinato che se ne distingua derivandone, sarà pur sempre suscettibile di errori, via via meno limitati nella loro successiva discesa.
Tutto questo nulla avendo a che vedere con quell’interiorità e quell’esteriorità, che lasciano il tempo che trovano, definite che non siano esistenzialmente ed univocamente quanto ai livelli dell’essere. Soprattutto nel rispetto dello statuto divino vario definito divinamente ab aeterno, il quale non prescinderà neppure dallo statuto differente quanto al succedersi delle formalità successive di quello stato superno, e non supremo. Com’è in Ibn Arabi per lo stato di Muhammad e per quello di Alì, la pace su di loro e sui loro figli immacolati. Dicevamo dunque che tutto dovrà riferirsi a quel fastigio intuitivo superno, del tutto scevro da immaginazioni ed astrazioni mentali.
Essendo in un tal senso che andrà a definirsi la cosiddetta “filosofia” sotto un riguardo corretto, in un senso corrispondente a quello della “ĥikmaħ”dei sapienti musulmani, subordinata allo “ºirfān”, alla conoscenza superna intuitiva e presenziale, alla quale conoscenza, o ĥikmaħ, peraltro corrisponderà la versione “nażarī”, vale a dire, dottrinale ed ispirata della conoscenza superna, della nostra sapienza. A cui accenna peraltro la “agia sofia”, la sapienza santa dei Cristiani d’Oriente, da non confondersi con nessuno dei San Pasquasio, o Santa Cunegonda, com’è anche per la Beatrice e la Lucia di Dante.
La “filosofia” che andrà annessa alla scienza della natura, dovrà essere solo e soltanto quella, vale a dire, il pensiero inteso in un senso superiore, il che n’estrometterà gli abusi e le immaginazioni vane e perverse, facendosi illustrare dall’infallibilità della Rivelazione, della conoscenza dei Puri muhammadici ed adamici, che essa stessa illustrerà nella sua interpretazione coi suoi aspetti validi scevri da limitazioni immaginali individue. Siamo qui perfettamente d’accordo con il Thuring per la vanità dell’”idealismo” tedesco erede del Kant, cui aggiungiamo quasi tutto il pensiero moderno e contemporaneo, con gli orrori della “filosofia analitica”, che si riduce ad un mero esame testuale.
Sino alle confusioni dello Heidegger tra l’essere indefinito e l’Essere Perfetto, riducendo il secondo al primo, tanto da svalutarne la profusione e l’irradiazione, non più segno dell’Altissimo e sua derivazione ascendente, così come anche strumento dell’ascesa a Lui, ma mera aberrazione e negazione. Sino agli orrori reiterati di Karl Popper, dei quali avevamo già prima messo in evidenza l’ammirazione per lo Einstein, con la sua pretesa conoscenza mai compiuta, sempre imperfetta e “falsificabile”, perfetto corrispettivo degli assunti generali ed arbitrari di uno Einstein, ai quali farà da correlato la sua “unended quest”, la ricerca senza fine di chi nulla o poco sa o mai saprà.
Con i suoi errori e con i suoi orrori quanto a quella sua pretesa “società aperta”, del tutto incapace di farsi definire da un’universalità anche limitata, ed errata, ed immaginaria, come sarà per il Marx e per lo Hegel, od anche dalla generalità di un Einstein. Ma come non sarà invece affatto per Platone, per Plotino, per Tommaso d’Aquino, e per tutti i grandi sapienti musulmani e no, a cominciare da Molla Sadra, Ibn Arabi, e Sankara indù. Una società la sua dunque, del tutto chiusa alla trascendenza, e di contro aperta alla mondanità più regressiva, come sarà secondo gli auspici del Centro Rocfeller di New York, la città della mela infera, centro quello da lui ammirato apertamente.
In definitiva, per l’inconsistenza di questo nostro basso mondo, una società aperta verso l’Inferno, ricusata che abbia la trascendenza, nella sua falsificabilità, limitata soltanto parzialmente dalla possibilità di ripararla come un meccanismo guasto, meccanismo a cui essa in definitiva si riduce, non di emendarla anche solo con la mera generalità fittizia einsteniana, chiusa come sarà, come dicevamo, nel verso d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato. Generalità fittizie anche per un Hegel e per un Marx, mero materialista il secondo, ma non ancora volto all’Inferno. Mentre il primo pretenderà di costruire un edificio trascendente a procedere dal nulla.
Come non sarà invece per Platone che, come Molla Sadra, la ricollega agli orrori di una pretesa volontà popolare inesistente, quale egli l’aveva vista nell’Atene del suo tempo, quale noi la vediamo assai peggiorata ai nostri giorni, come n’era giunta notizia a Molla Sadra per quella congrega arbitraria che aveva conculcato i diritti divini della Famiglia immacolata del Nunzio Divino. Volontà popolare inesistente nella mera individuazione dei suoi membri, di cui l’uno non attinge all’altro, sprofondando per questa insussistenza nel verso della dissoluzione tellurica ed infera, come ci dice il Sacro Corano.
Sarà così dunque, che sarà possibile di guidare la scienza di natura, in quanto scienza d’Iddio Altissimo, Ne siano esaltati i Nomi Santi, e dei Suoi segni eminenti, che Egli ha posto negli orizzonti della Sua discesa creativa, della Sua profusione santa, in lingua araba “al faydu-l-muqaddas”. E che solamente in un tal senso, rifiutato che abbiano il loro riferimento a quell’eminenza, andranno a risolversi in mere effervescenze infere. Nulla di tutto questo, quando ci si attenga correttamente a questa significanza tutt’altro che vana.
Il fatto sarà che, siccome già dicevamo in precedenza, prima che gli orrori dell’Occidente secolarizzato s’imponessero al resto del mondo, con la loro sussistenza inferiore devastante, il mondo d’Oriente, e quello musulmano nella fattispecie, pur nelle sue mancanze dovute all’abuso suddetto contro la Famiglia del Nunzio Divino, avevano preferito indulgere alle vie dell’ascesa. Trascurando i loro correlati, i loro stessi effetti corporali, com’è che ci faceva giustamente notare uno dei nostri Maestri di conoscenza e di morale in Iran.
Effetti mondani che rendevano possibile ad uno dei compagni di Salomone, Inviato divino, la pace dell’Altissimo su di lui, di trasportargli a Gerusalemme il trono della Regina di Saba dallo Yemen in meno di un istante, di un battito di ciglia, come ci dice il Sacro Corano. Compagno di Salomone, la pace su di lui, che era a conoscenza del Libro, vale a dire, del Libro trascendente posto presso Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, al quale hanno accesso i Puri, sempre secondo il Sacro Corano, ed i radicati nella conoscenza.
Eventualità questa obnubilata dall’arco della discesa umana dalla trascendenza, vale a dire, dal suo ispessimento corporeo, così come avevamo già prima osservato con Evola, ma che resta pur sempre operativa al di là dei vari veli di corporeità e d’ispessimento esistenziale che la precedono. Tanto da giungere ai nostri giorni, nel verso eminente dell’ascesa esistenziale, ai due eventi di Tabas nel deserto iraniano, ed all’umiliazione cocente della superpotenza aerea statunitense, dopo la Rivoluzione Islamica Iraniana, all’inizio dell’arco dell’ascesa esistenziale, dopo il lungo tratto discendente e regressivo.
Che hanno visto di recente il secondo l’atterraggio indenne, ritenuto umanamente impossibile, di un aereo spia statunitense ultrasofisticato sotto il riguardo dei suoi artifici corporei. Ed il primo la distruzione di un’intera loro flotta aerea “per opera non nostra, ma del vento e della sabbia, agenti d’Iddio Altissimo”, sia magnificato ed esaltato, com’ebbe a dire l’Imam Komeini, che Iddio n’estenda l’ombra, in un suo celebre discorso in quell’occasione. La festa degli empi e dei miscredenti è giunta alla fine, basta guardare i segni.
Non più il sacrificio vano, come dicevamo, dei valorosi piloti giapponesi che andavano a sacrificarsi contro le navi dell’invasore statunitense, e immondo, e prevaricatore, e vile. Non più il disastro apparentemente naturale, in realtà d’origine infera, di quell’Invincibile Armata dei credenti, salpata contro i rinnegati anglosassoni, dopo d’essere stata benedetta dall’autorità spirituale dell’Occidente di quel tempo. Iddio, Ne sia esaltato l’Essere, fa uso della natura pro e contro l’uomo. Egli consente all’uomo stesso di essere Suo agente per via della sua conoscenza trascendente, facendo che il Suo castigo lasci luogo al Suo premio.
Sarà di qui, che ci faremo guidare a decidere della varie eventualità della scienza naturale. A decidere, per esempio, contrariamente a quello che ne reputa il Waldner, considerandola una mera presa d’atto, della completa vacuità della cosiddetta “meccanica quantica”, dell’equazione di Schrodinger, e del suo vano “principio di indeterminazione”, detto dello “Heisemberg”, a cui pure lo Einstein si oppose, quantunque con argomenti speciosi. Che non faranno se non ridurre l’essere umano ad una incapacità conoscitiva prettamente kantiana e popperiana, negandogli ogni ascesa trascendente.
Questi sono gli assunti vani, che potranno essere prodotti da un pensiero vano, vale a dire, “il sonno dell’intelletto”, non certo della loro ragione indipendente e vana, come pretenderebbe invece la vulgata presente, che se ne va avanti in tutta impudenza a produrre i suoi mostri raccapriccianti. Tanto che, come dicevamo, il proliferare delle varie vanità numeriche, intesi che siano i numeri in un senso meramente astratto, niente affatto trascendente, procede indefessamente, ad onta delle corrette osservazioni di taluni.
Tanto che abbiamo potuto sapere in Iran, di un autorevole studioso rammaricarsi del fatto, di notare ancora insegnati nelle locali università gli orrori e le corbellerie della meccanica newtoniana. Ad onta dell’augurio e della proposta di un altro sapiente illustre, sempre nel medesimo Iran, di sostituire le scienze numeriche profane con una scienza sacra prettamente islamica, la quale verrà ad essere, in definitiva, quella medesima scienza della quale diceva Guenon, preconizzandola ed auspicandola anch’egli nella sua trascendenza. Nondimeno avviene che, sia pure con tutte queste premesse dell’arco ascendente, che preludono tutte a quella manifestazione dell’Ultimo dei Puri Intimi d’Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, che la farà finita con tutti questi abomini, la farsa va avanti. Diciamo farsa, perché si tratta, com’è che avevamo già visto, di assunti, ed elaborazioni, ed elucubrazioni del tutto ridicole, non sorrette da nessuna controparte intellettuale, e neppure sensibile, se prescindiamo dalla produzione effettuale del loro stesso mondo di sogno.
Il quale non sarà certo, come pretendeva invece uno studioso cristiano di origine giudaica, la produzione del fascismo e del socialismo, aberrazioni queste assai artigianali, quantunque non scevre in definitiva da un qualche contenuto esistenziale, meramente materiale il secondo, e nel verso di una trascendenza fittizia scevra da Rivelazione il primo, contenuti che negano loro lo statuto di realtà di sogno. Con le loro varietà peggiorative del nazionalsocialismo e del comunismo, che accentuano le loro deficienze materiali e sopramateriali.
Ma nel senso invece dell’aberrazione dissolutiva assoluta, della volontà popolare presunta e pretesa, della “liberaldemocrazia” d’Occidente, con le sue componenti del liberalismo pubblico e del liberismo finanziario e produttivo, estremo della discesa nel verso della dissoluzione infera. Oltre la mera materialità comunista e socialista, ed oltre la pretesa d’ascesa velleitaria ed infondata, priva di Rivelazione divina, del fascismo e del nazionalsocialismo, fatto salvo il nobile tentativo di Codreanu in ambito ortodosso.
Mondo dunque, quello “liberale”, ad orientamento affatto infero, al quale ce la sentiamo di attribuire tutte le nefandezze presenti, tutte quante artificiali ed artificiose, nato assai prima che esso giungesse ad assumere una dimensione pubblica, sociale, produttiva finanziaria, “scientifica”, come pensiero nato con Lucifero dopo l’inizio del mondo creato. E tale da imporsi anche a tutti gli altri mondi, con la violenza e la seduzione, volenti o nolenti, perché nel primo dei due casi, come dice Evola, riportando un proverbio orientale in “Cavalcare la Tigre”, “chi cavalca la tigre, non può scendere”, oppure per noi, “chi è in gioco, deve giocare”, fino alla fine, la loro, non la nostra.
Sarà a questo medesimo riguardo, che dovremo mettere in evidenza purtroppo, come fanno anche il Waldner ed il Thuring nel nostro libro, tutta l’efficacia perversa di una di quelle scienze moderne affatto fallaci, della “scienza” delle comunicazioni. La quale fece già la sua comparsa in antico nell’Ellade e nell’Atene della sofistica, e dell’ebbrezza del preteso e presunto potere popolare, com’è appunto ai nostri giorni. Ebbrezza e potere e sofistica biasimati moralmente, e demoliti concettualmente da Socrate e dal suo allievo Platone, sotto il riguardo, come già dicevamo, della conoscenza superna.
I quali li misero dunque alla berlina, e che ai nostri giorni disgraziatamente ritornano, passando dal potere dei capi popolo, vale a dire, dei “demagoghi” ateniesi, a quei “poteri forti” dei quali ci dice Schmidt, anche se si tenta di squalificarlo come nazionalsocialista. Gli uni, i capi popolo, blandendo le basse voglie inferiori della plebaglia più fecciosa, l’anima concupiscibile, che induce al male, come nel sacro Corano, gli altri anch’essi, ma quasi del tutto nascosti, senza responsabilità, ma con un poter enorme quanto a noi, con una potenza omnipervasiva e devastante in questo nostro basso mondo degenerato ed infelice. Entrambi irrealtà inferiori, nella loro scaturigine infera.
Mostri immondi, e schifosi, e ributtanti, ma sempre pronti a mascherarsi e ad imbellettarsi, uscendo dalle tenebre delle loro spelonche sotterranee, con i belletti più speciosi, della cosiddetta “volontà popolare”, che non esiste, perché non il popolo, ma la singola persona avrà volontà. Dei pretesi “diritti umani”, ma senza dirci di quale uomo, onde abbiano a ridurre la dignità superna della nobiltà e dell’elevatezza umana a quell’infimo dell’abiezione, della quale ci dice il Sacro Corano, dell’uomo senza qualità, della baldracca, del pervertito, del criminale, scevro di ogni qualsivoglia eminenza, privandoli così dell’uomo.
Così come di una libertà invertita e caricaturale, quella ai nostri giorni promossa dall’Occidente prevaricatore che, come dice l’Imam Sadeq, la pace su di lui, quanto all’intelletto preteso e presunto di un Muhawia, che Iddio Altissimo lo maledica e lo profondi, sarà mera imitazione e caricatura infera e rovesciata della libertà reale e eminente, non essendo essa affatto libertà. Facendosi valere per l’anima concupiscibile passionale contro l’intelletto, non invece a pro dell’intelletto, nel verso dell’ascesa a Iddio Altissimo, sia benedetto e glorificato, assicurandogli così anche il dominio sull’anima suddetta.
Scienza delle comunicazioni, che s’imporrà indifferentemente per tutto ed il contrario di tutto, avendo ai nostri giorni vari campi d’applicazione, dalla pubblicità commerciale, venendosi ad acquistare una schifezza qualsiasi al posto di una produzione qualitativa in virtù dell’investimento di danaro. Al campo della vita pubblica, essendo note l’ignoranza, e l’inettitudine, e la corruzione dei capi così prescelti, per volontà dei soliti noti, occultamente e senza responsabilità, scelti da una fittizia “volontà popolare”, come gli antichi capi popolo mercé dei sofisti. Sino all’ambito dottrinale. Imponendosi un insieme d’infallibilità e d’indiscutibilità fasulle, con il mero argomento della conformità o no alla scienza, ai diritti umani, alla libertà, alla volontà popolare.
Il tutto essendo peraltro legato a quell’infallibile, almeno per taluni, per i più, macchina del consenso, della quale ci dice il Waldner, con tanto di scienze statistiche annesse, appannaggio di chi sarà in possesso di tutto un insieme di dati di per sé insignificanti, così come degli apparati e degli artifici, in particolare quelli informatici, che li detengono, o se ne avvalgono. Ma sempre nelle mani, grazie ai cosiddetti esperti, di chi sia pronto a farne l’uso che più gli aggrada, facendosi impaludare da quella pretesa infallibilità scientifica, pronta a dargli sostegno nelle sue voglie perverse, in definitiva al servizio degli Inferi.
Dicevamo che la scienza delle comunicazioni se va fa affatto fiera della sua indifferenza ad ogni contenuto, facendosene gli usi dei quali dicevamo sopra. Essendo peraltro difficile individuarne l’origine quanto al nostro mondo, non quanto allo stesso Lucifero. Nei primi tempi essa fu appannaggio di circoli ristretti di presunti illuminati, pronti ad avvalersi dei troppi passi falsi, in genere non di valutazione, ma di comportamento e di reazione, della Chiesa Cattolica e dei sapienti da essa ispirati, nei confronti di vari errori, gli uni a suo esclusivo giudizio, gli altri invece universalmente tali.
Tanto da far sì che venissero assunti ad improbabili campioni di un’insussistente libertà del pensiero individuale figuri inquietanti come Giordano Bruno e Galileo, che sarebbero solo stati da confutare, condannare intellettualmente, ed al limite da deridere per i loro errori grossolani, più che da punire. Con tanto di nascita d’improbabili “geni”, gallicismo innovatore che si ripropone di fare valere e di esaltare un ingegno lasciato a sé, da cosiddetto “libero pensatore”, lasciato alla sua mera individuazione. Libero in effetti dall’intelligenza, in sé, sopra di sé, e fuori di sé all’occorrenza, in mancanza d’altro.
Per poi farsi valere, più in seguito, dopo un’ulteriore loro espansione, per moltitudini abbrutite, e private d’intelligenza e d’autorità legittima, vale a dire superiore, che le guidi. Del tutto pronte a seguire l’onda corrente, ed a farsi abbindolare dai detentori dei poteri forti ed inferi. Imponendosi loro per il tramite di una finanza privata di ogni diretta scaturigine superiore, com’è che appunto dicevamo poc’anzi nel caso dell’oro e della sua significazione. Moltitudine rese tali e dal procedere esistenziale, così come dall’intervento di simili forze esterne, che ne manovrano l’anima concupiscibile e passionale tralignata.
Questo agire, che se ne va di pari passo con un potere finanziario deviato ed occultato, per lo più, in quanto tale, in mani giudaiche, la fa finita una volta per tutte con un’autorità spirituale abbandonata a sé stessa, al massimo a dare consigli vani e vuoti, senza nessuno strumento operativo per farsi valere, pronto peraltro a farsi fagocitare con un potere temporale affatto secolarizzato, resosi del tutto indegno del suo alto ufficio. Questo agire e questo potere illusorio e velleitario prorompono travolgenti in ogni dove, come un’onda devastate che si lasci dietro solamente qualche residuo insignificante.
Sarà dunque così che, tra le tante falsificazioni, riguardanti sia il mondo delle vicende umane, con le sue pretese “magnifiche sorti e progressive”, sia una conoscenza ridotta a pretesa “scienza”, meramente o effettuale o astratta, sarà che potremo assistere a quella che il Waldner chiama la nascita e l’ascesa dei ”geni”, o meglio, degli ingegni artificiali, inventati ed alimentati di sana pianta. Tra i quali il Waldner fa primeggiare, per il nostro ed il suo tempo, le figure equivoche del Toynbee, per le vicende umane, del Darwin, per la scienza della vita, e dello stesso Einstein, per la scienza della natura.
Lista in effetti ridotta, in quanto vi si sarebbe dovuto inserire anche, oltre alle figure del passato, con Galileo, Cartesio, Newton, anche tutto l’insieme dei vessilliferi della scienza e del pensiero moderno, con ben poche, rarissime eccezioni, tra le quali primeggiano, significativamente in questi nostri ultimi tempi estremi, le nobili figure di Guenon e di Evola. Sarà impressionante, a questo riguardo, la documentazione ineccepibile riportata dal Thuring, delle manifestazioni di ardore fanatico che accompagnavano in modo apparentemente inspiegabile i viaggi dello Einstein in varie parti de mondo.
Dalla Spagna, all’Olanda, agli Stati Uniti d’America, nella loro “grande mela” infera e giudaica, New York, e persino nel Giappone ancora almeno in parte tradizionale, incredibile a dirsi, come osserva correttamente il nostro autore. Dove la gente, persone a volte di per sé stesse serie e rispettabili, trascinate da quell’onda di propaganda pervadente ed ingannevole, si lasciava andare ad esibizioni ben poco edificanti, nell’adorazione prona del “grande uomo”, del ”genio” supremo, nulla che qualcosa avesse a che vedere con una qualsiasi curiosità mondana, o con una discussione d’ordine scientifico e conoscitivo.
Viene inoltre messa in rilievo la connessione tra la tabe einsteniana e quella marxista, così come con il neopositivismo, ed altre che si potrebbero aggiungere. Come ad esempio le farneticanti dottrine mentali del Reich, usate dopo la seconda guerra mondiale, come osserva Evola, per la cosiddetta “rieducazione” dello sventurato popolo tedesco, alla pretesa “etica democratica”, che non si sa bene che cosa possa mai essere, oltre alla prevaricazione, al latrocinio, al libertinaggio, ai brogli elettorali maneggiati dai poteri forti, se necessario.
Come fu anche per il Giappone, rieducato com’è stato anch’esso, dopo d’essere stato vinto vilmente e distrutto, nella seconda guerra mondiale, dallo strapotere industriale e dalle bombe varie, nucleari o no che fossero, dei presunti e pretesi liberatori, non si sa bene da chi e da che cosa. I quali anche ai nostri giorni sono alla ricerca continua di sempre nuovi nemici, oltre ai vecchi, oramai inattuali, ed in definitiva inadeguati, nella loro comunanza di radice con il male assoluto che li combatteva, e che pure se ne avvaleva come di strumenti per occultare ed obliterare le proprie magagne interne.
In primo luogo tra tutti l’Islam, il quale peraltro si sta tentando di ridurre alle mere farneticazioni ed alle aberrazioni omicide dei Daesh e Takfiri, e dei wahabiti rinnegati dell’immonda famiglia Saud, adoperandosi inoltre per ridurre a mera concausa quello dei seguaci della Famiglia della Dimora del Vaticinio, col metterli nella stessa solfa, riducendo quest’ultimo alla menzogna di caricature propagandistiche del tutto falsificanti, quanto alla malafede di chi se ne avvale. Alla ricerca di quella presunta “bestia” del Bennon, egli stesso, con tutti i suoi sodali, mera bestia schifosa e vomito infernale.
Sarà da mettersi in rilevo quanto allo Einstein una falsificazione ulteriore, per la quale egli viene presentato come l’intelligenza suprema del genere umano, non sappiamo bene se superabile o attingibile, oppure no, con tanto di evoluzione, alla maniera del Darwin, dalla scimmia a lui, o forse anche regressione, rappresentata in immagini involontariamente ridicole che c’è stato dato di osservare in Italia. Così come, essendo Hitler il preteso male massimo inattingibile, ogni altro male minore potrà essere accettato, e giustificato, o persino negato, com’è appunto per le poco edificanti imprese degli statunitensi, e dell’entità criminale proclamatasi “Stato d’Israele”, e dei loro sodali.
Effigiandolo anche in varie pose, tutte risibili, a dare rilevo alle posture da uomo comune di questa pretesa intelligenza suprema. Immagini purtroppo da noi viste in Iran, per renderci conto di quanto sia pervasiva la sua leggenda. Risibile è l’asserto, da noi letto in una nota altrui nel libro iraniano di cui dicevamo poc’anzi, per cui solamente pochissime persone al mondo sarebbero in grado di capire le equazioni attribuite allo Einstein. Asserto affatto ridicolo perché, in primo luogo, ammesso che queste equazioni esitano, e che siano le sue, non si capisce affatto che cosa vi sarebbe da capirci.
Certo alcune elaborazioni ed astrazioni numeriche, quali quelle della meccanica quantistica relativistica, oppure del calcolo delle variazioni, con i suoi spazi astratti, sono realmente complesse, solo che nella loro astrazione non saranno affatto significanti. Vale a dire, che nelle loro matrici, nei loro tensori, nei loro spazi astratti suddetti, o curvi, come nella generalizzazione delle distanze che li riguardano, non ci sarà proprio nulla da capire, non essendoci proprio nulla di realmente intellettuale e significativo, ma solamente mere astrazioni. Il tutto riducendosi, come per il Newton, ad un mero gioco numerico.
Ci sarà poi il fatto, che sorge legittimamente il dubbio, che lo Einstein non abbia mai scritto formule di sorta. Non vorremmo qui esagerare. Ma come osserva correttamente il Waldner, lo Einstein si è limitato alle sue pretese interpretazioni di equazioni altrui. Ad esempio, il Lorentz trasse le formule delle pretese contrazioni del tempo e dilatazioni dello spazio, entrambi presunti vuoti, dall’esperimento di Michelson Morley, senza nulla pretendere d’aggiungervi, trattandosi in definitiva per lui di un fatto meramente numerico, senza significato effettuale, conseguenza di un esperimento che non generalizzava.
Lo Einstein pretese invece d’aggiungervi, nota bene sempre il Waldner, un suo preteso significato effettuale, da applicarsi, con i procedimenti sopra detti, peraltro non esclusivamente talmudici, ma più generali, all’intero mondo di natura. Quanto alla celebre formula che collega la massa alla cosiddetta “energia”, termine questo dei più abusati, non sappiamo, almeno questa, se sia opera sua, o del Lorentz. Non avendo peraltro essa, a prescindere da suo originale significato d’attualità, di compimento esistenziale, ridotta che sia a mera astrazione numerica, quel senso di forza in seguito attribuitogli, colpa questa peraltro già del Newton e dei suoi seguaci e successori.
Mentre per quello che concerne la relatività generale, sarà bene rifarsi alle formule sullo spazio curvo di Tullio Levi Civita, del quale già prima dicevamo, alle quali, come al solito, come fu per le equazioni del Lorentz, lo Einstein si limitò a dare le sua presunte e pretese immortali interpretazioni, formule quelle peraltro reperibili in un qualsiasi testo di calcolo tensoriale. Essendo dunque questo tutto il morale della favola, e non a nostro dire. Quantunque d’altro canto pare, riferisce il Waldner, che lo Einstein abbia manifestato sempre una grande abilità nella manipolazione di astrazioni e formalità numeriche.
Come sia stato poi possibile costruire la leggenda di questa figura, che da oscuro impiegato che egli era in un modesto ufficio brevetti svizzero, ebbe all’improvviso accesso ad esclusive riviste universitarie riservate a pochi “luminari”, si fa per dire, ed ai loro diretti manutengoli, tanto da guadagnarsi alla fine cattedre universitarie prima a Zurigo, poi a Berlino, al Kaiser Willelm Istitut nientemeno, nella Germania Guglielmina del Secondo Reich addirittura, è in effetti assai difficile a capirsi, così come anche la sua influenza ulteriormente deleteria in quegli ambienti, già di per sé deleteri, per dirla com’è.
Se non si vuole fare ricorso alla sua predestinazione di “appartenente alla “razza eletta”, ammesso che di razza si tratti, oramai purtroppo in possesso, almeno nei suoi elementi tralignati, delle chiavi del mondo, se non altro temporaneamente ed in senso inferiore. Essendo peraltro assai significativa la commistione darwiniana surrettizia della quale dicevamo qui sopra, tra la scimmia e lo Einstein. Quasi che egli, così come tutti quanti quelli come lui, debba ridursi in definitiva solamente a quel livello, e null’altro, a dispetto di tutta la propaganda in contrario, e di tutta l’esaltazione che se ne fa affatto indebitamente.
A questo medesimo riguardo, vale a dire, della sua straordinaria capacità d’insinuarsi, o meglio d’essere insinuato, per virtù giudaica e talmudica, dai poteri forti ed inferi negli ambienti più disparati, sarà degna di rilevo la voce, di recente diffusasi in Iran, di un suo presunto rapporto nientemeno che con l’Ayatollah Burujardi, tramite scambio di lettere, essendo l’Ayatollah Burujardi la massima autorità spirituale del suo tempo. La cosa è, a dire le cose come stanno, assai sconcertante, per le ragioni che verremo qui di seguito in breve esaminando, a riprova, oppure a diniego della congettura suddetta.
Trattandosi addirittura, quanto al suo destinatario, della Guida dei seguaci della Famiglia immacolata del Nunzio Divino, al tempo in cui l’Iran, loro centro massimo, era sotto il tallone spietato dei sedicenti “ShahenShah”, in lingua italiana “Re dei Re”, Cesta d’Asino, rinominati e nobilitati come Pahlavi dagli inglesi, che esercitavano su quella terra un dominio indiretto, per il tramite di questi loro manutengoli immondi, al tempo del loro colpo di stato che portò al potere il primo “Pahlani”, appunto “Cesta d’Asino”, dove era stato ritrovato, infante senza padre. il famigerato e sanguinario Reza Khan.
Ora, a questo medesimo riguardo, due saranno le possibilità. O alcuni fratelli ingenui, fattisi abbagliare dalla leggenda del supremo ingegno umano, hanno accettato supinamente una mera invenzione tutta giudaica ed occidentale. Oppure si tratterebbe di un’intrusione con secondi fini di deviazione e corruzione, certo impossibile per una persona del rango spirituale di Burujardi, a capo di una fede prima nel mondo per completezza, da parte di un figuro, quale lo Einstein, del tutto privo di un qualche interesse per le cose della fede, e del tutto a digiuno di ogni competenza ed interesse spirituale.
Non sappiamo se corrisponda ad una qualche realtà, il fatto che l’Ayatollah Burujardi avrebbe persino consigliato allo Einstein di rifiutare l’offerta alla nomina di presidente dell’entità criminale sionista proclamatasi “Stato d’Israele”. Quello che sarà in questo caso assai più rilevante, a nostro modesto avviso, sarà il fatto che mai e poi mai lo Einstein si sia dato la minima pena di condannare minimamente e la realtà perversa, e le gesta atroci del sionismo internazionale, prima e dopo l’invenzione e la costituzione dell’entità criminale suddetta, e ricordiamo, che chi tace acconsente.
In ogni caso, egli avrebbe potuto dare, in questo modo, con questa sua presenza, ai suoi manutengoli informazioni preziose sul movimento dei credenti nell’Iran islamico, movimento che avrebbe prodotto in seguito, com’è noto, l’evento cruciale della Rivoluzione Islamica Iraniana. Circostanza questa che è abituale per alcuni figuri, provocatori e spie che si spacciano per credenti, frequentandone la compagine, e giungendo ad aiutarli in caso di bisogno, senza subire nessuna di quelle conseguenze inevitabili che ci si sarebbero da aspettare in questi casi, specialmente nella nostra sventurata contrada, vale a dire, nella nostra misera ed infelice Italia liberaldemocratica.
A questo medesimo proposito, sarà da aggiungersi una qualche considerazione sulla funzione pubblica dello Einstein, data dal Waldner per affatto preponderante nella sua vita, dopo che egli fu innalzato sul piedistallo di una gloria usurpata, assurgendo al fastigio della notorietà e della fama. Il Waldner mette in rilevo il suo stretto contatto iniziale con ambienti di estrema sinistra, e con ardenti sionisti, senza nessuna religiosità, sincera o no, tanto da distinguersi nei circoli degli amici dell’allora Russia Bolscevica, o Unione Sovietica, distinguendosi per la sua presenza nei connessi circoli cosiddetti “antimperialisti”.
Fatto sta che lo Einstein, nel 1933, senza che venisse torto un capello a lui o ad altri, come fu del resto anche per Enrico Fermi, emigrava negli Stati Uniti d’America, com’era d’obbligo, osserva acutamente il Waldner, siccome sede ottima per le sue future operazioni, ci permettiamo di aggiungere noi. Il quale Waldner mette in rilevo la sua professione di pace tutta di facciata, com’è abituale in questi casi, data la quasi completa inesistenza di puri e sinceri fautori della pace e della non violenza, come fu invece per Gandi. Nel suo caso, propaganda a pro della pace tutta ad uso dei non giudei, non di altri.
A questo medesimo proposito, sarà qui da osservarsi che quello della pace non sarà certo, come pretenderebbero invece taluni, un principio assoluto. Perché essa non sarà certo una perfezione assoluta, ma invece “secundum quid”, ovverosia relativa, per avvalerci di una locuzione degli antichi scolastici, almeno quanto a questo nostro basso mondo d’imperfezioni, e di mutazioni, e di contrasti. Per cui andrà assunta, per quello che lo concerne, una via di mezzo, com’è che osserva Platone nel Politico, a proposito della norma che regge lo stato. Non eccessiva durezza, e neppure eccessiva morbidezza, separatamente distruttive, ma messe invece assieme e conciliate dall’intelletto.
Assolutizzare quello che non è assoluto, per lo meno qoad nos, come dicevamo prima quanto alla pace, sarà semplicemente un errore. Con il quale si adatterà strumentalmente l’atteggiamento di quanti ne faranno un uso di comodo, avvalendosene astrattamente, ma non effettualmente, per cui noi siamo sì contro la guerra, ma facciamo la guerra a chi fa la guerra, ergo facciamo la guerra a tutti. Atteggiamento questo peculiare agli anglosassoni, nella sua schietta matrice massonica. Lo Einstein fu nel gruppo di questi ultimi, ora facendola da pacifico, almeno in linea di principio, ora da guerrafondaio, di fronte al mostro indotto, come che fu per Hitler e per l’Asse Roma, Berlino, Tokio.
Guerrafondaio dunque quando si trattava di conculcare forze, che tentavano di reagire, anche se in una maniera alquanto distorta, alle magagne del mondo contemporaneo, ma pacifico invariabilmente prima e dopo, comunque sempre a pro degli ambienti giudaici più fanatici, com’è che riporta il Thuring, che egli ebbe a dichiarare più volte. Quanto alla sua partecipazione al progetto Manhattan, che avrebbe condotto alla costruzione delle prime bombe nucleari, ed al loro uso contro il Giappone sul finire della Seconda Guerra Mondiale, ammesso e non concesso che esse siano mai esistite, si tratta di un fatto alquanto controverso, negato od affermato secondo i casi.
Alcuni ne sostengono la decisa opposizione, il Waldner invece ne fa uno dei suoi promotori più strenui. Noi, per parte nostra, propendiamo per questa seconda eventualità, anche alla luce di talune esortazioni che egli rivolse al governo statunitense, sul pericolo, del resto affatto insussistente, che della cosa si facesse invece promotore ed esecutore il governo nazionalsocialista tedesco. In ogni caso, egli fu complice, almeno tacito, degli orrori bellici anglo americani, come fu poi, come dicevamo già prima, testimone per lo meno benevolo per gli orrori dell’abominio giudaico dell’occupazione della Palestina.
Personaggio apparentemente ambiguo dunque, ma di fatto apertamente schierato nel senso dell’abominio mondano estremo. A questo medesimo proposito sarà da rilevarsi la sua completa assenza di direzione trascendente per quel che concerne la sua opera pubblica, senza che ci sia da meravigliarsene, alla luce di tutto quanto abbiamo detto sino ad ora. Mancanza di orientamento che lo rigetta nel verso più propriamente infero della cosa, il fatto valendo specialmente per lui, con tutte quante le sue fisime di pensiero e d’interpretazione delle cose del mondo, le quali lasciano il tempo che trovano.
Il fatto è che del suo personaggio, elevato ad immeritati fastigi, si venne a fare un uso perverso, per giustificare le abominazioni degli aspiranti al rango di Signori del mondo, pur con quelle poche osservazioni di apparente biasimo, in realtà benevole, com’è d’uso in simili casi. Osservazioni a volte immaginarie, ma che non fanno se non mettere in evidenza la necessità della loro direzione perversa delle cose del mondo. Com’è per l’ultima delle guerre, da combattersi con le pietre, come diceva lui, non invece con le spade dei Nunzi divini, come diciamo e sappiamo noi. E ricordiamo che persino il “diavolo” Hitler chiese perdono a Iddio, Ne sia esaltato l’Essere, per la sua ultima ora di guerra, mentre gli statunitensi non hanno mai chiesto perdono a nessuno.
Quello che sarà qui da mettere in evidenza, come fa il Thuring, è la sua fanatica professione di fede di giudeo secolarizzato, a dispetto di tutta la sua indifferenza per l’ordine trascendente, come dicevamo, la qual cosa renderebbe affatto inspiegabile, non fosse per le ragioni suddette, vale a dire, i secondi fini sopradetti, il suo interesse ed il suo rapporto con un sapiente eccelso quale fu l’Ayatollah Burujardi, quando questo rapporto non sia stato inventato di sana pianta, alla luce di quanto già prima dicevamo. In un tal senso andando interpretata anche la sua attività pubblica, seppure tanto esaltata.
Questa sua fanatica professione di fede giudaica, nel senso suddetto, affatto secolare, nulla avente a che vedere con la fede, aggiunta alla sua pretesa attitudine pacifica, e da ultimo, alla leggenda del sommo ingegno umano, affatto inattingibile, almeno nel campo delle scienze di natura, che peraltro sarebbero per il suo sodale Popper le uniche valide, secondo le osservazioni del Waldner e del Thuring, ne fanno uno strumento formidabile ed ineguagliabile, per sciocchi, ed ignoranti, ed ingenui, e disinformati. Tattandosi peraltro a volte di persone di un livello intellettuale non da poco ed in buona fede.
Strumenti atti ad imporre al mondo certe visioni fallaci e perverse in ciascuno di quei tre ambiti. In primo luogo quanto alla pretesa innegabile eminenza intellettuale, giudaica, che noi non ce la sentiamo certo di negare per certi elementi spiritualmente scelti, specie per il passato, vale da dire, di fede giudaica non secolarizzati, pur negandone l’unicità. Leggenda che la fa da sostegno, già dicevamo, al presente predominio secolare giudaico sul mondo. Sulla scorta anche d’intrusioni infere quali la Cabala, che avrebbe la pretesa d’imporsi ad Iddio stesso, sia magnificato ed esaltato, che Egli ci guardi da tali abomini.
In secondo luogo, una propensione pacifica affatto di maniera, ad uso del tutto orientato nel verso degli interessi e mondani ed inferi dei prevaricatori, i soliti noti. Atti sempre a dare addosso, smascheratisi come inguaribili ed inveterati guerrafondai e violenti, a dispetto dei loro asserti pacifiche, a quanti non vogliano piegarsi alle loro insaziabili voglie. Com’è ai nostri tempi per le accuse ridicole e pretestuose di violenza guerrafondaia nei confronti dell’Islam, che sarebbe tenuto a piegarsi agli oppressori inveterati, accettandone tutte le pretese, e che sarebbe da aggredire e distruggere in caso contrario.
E da ultimo, tutta una scienza di natura in generale, non solamente quella einsteniana, affatto tralignata e perversa, in quanto tale assunta come sola scienza, più che come scienza suprema, com’è per il Popper. Senza lasciare posto, sulla scorta della riduzione all’uomo minimo kantiano, a nessuna ascesa alla conoscenza ed alla trascendenza. Nel caso dello Einstein, nel suo innestarsi giudaico su di un troncone che giudaico non è, quantunque esso faccia capolino dalla distorsione paolina, traslata da Israele all’intero mondo occidentale, per poi essere esaltata, a dispetto delle precedenti interpretazioni rettificatrici, dalla Riforma Protestante, dal Rinascimento, e dagli eventi e movimenti successivi.
Tutto questo naturalmente, tutta questa esaltazione involontariamente ridicola, avviene per merito della propaganda suddetta a proposito del “sommo ingegno” preteso e presunto, dello Einstein. Ma il fatto, a dire le cose come stanno, sarà assai più profondo, Il Thuring, da buon nazionalsocialista, si ripropone d’insistere in effetti su quelle scienza da lui pretesa “aria”, che in realtà tale non fu mai. La quale fu anche, ed in misura certamente non trascurabile, anche egizia, caldea, cinese, maya, dravida, prima e dopo l’entrata in India degli indogermani, od indoeuropei. Nessuna esclusività aria dunque.
Semmai furono proprio gli ari, a cominciare dagli elleni d’Alessandria, ed impennandosi a partire da Galileo e dal Newton, l’uno con le figurazioni, già iniziate da Archimede, l’altro con la formulazioni, entrambe astratte, che ebbe luogo quell’espansione immaginale destinata a travolgere il mondo, anche con quei pretesi scienziati cinesi, giapponesi, indiani. Questi vi diedero, citiamo la lista dei famigerati premi Nobel, ma solamente dopo, un contributo tutt’altro che trascurabile, aggiungendovi quel Rahman indiano, non sappiamo se ario a dravida, in ogni caso assorbito dalla temperie degli ari d’Occidente.
Perché furono proprio costoro a fare la differenza, a ridurre la scienza da un lato a sperimentazione passiva alla Comte, dall’altro a quell’insieme straboccante di vane elaborazioni mentali, di giochi numerici spettrali e disincarnati, per dirla ancora con Evola, i quali lasciano il tempo che trovano. Nell’aula di un’università accade ai nostri giorni, e questo vale purtroppo da secoli, da Galileo, Newton, Cartesio, che questi spettri, questi giochi, questi abusi, questi arbitrii abbiano la meglio, il che avviene, come dice il Waldner limitatamente alla relatività, per ragioni che nulla hanno di scientifico.
Tanto che ci si ritrova davanti a lavagne vergate da innumerevoli formule letterali, traduzione affatto conforme di quei numeri insignificanti che hanno preso il posto del verbo umano, dell’agente dell’intelletto e d’Iddio stesso, Ne sia esaltato l’Essere, lasciandogli solamente quel poco di spazio a cui non è dato di rinunziare, se non a prezzo di ogni intelligibilità e di ogni significato, per ridotto che possa essere. Ci viene in mente quell’immagine rinvenuta in Africa, tra non ari, di un uomo bianco con la bocca chiusa ed una lampadina nel cuore, come di chi ha perso il verbo, e non può intendere altrimenti la luce.
Il vizio e la cesura con la realtà a qualunque suo livello sono affatto evidenti. Così come sarà per l’arbitrio dell’esperimento, del quale già prima dicevamo, con i suoi risultati del tutto abusivi, inventati di sana pianta, anche per chi non sia, a questo medesimo riguardo, del tutto profano, del tutto a digiuno delle cose. Dato che a nessuno è stata mai dimostrata la composizione dei vettori, come congiungente in linea retta gli estremi opposti di un quadrangolo, oppure la legge di Coulomb, o l’irrotazionalità, o la non divergenza di un campo, o dove mai se ne stia l’entropia, tanto che un Professore prestigioso, con trascorsi in America, ebbe a chiedermi, se avessi mai visto un atomo.
Ipse dixit dunque. Sennonché qui non sappiamo chi sia l’”ipse”, chi lo ha detto, essendo la cosa molte volte affatto spersonalizzatala di là della funzione dei cosiddetti “geni”, ai quali la cosa è affidata in una maniera affatto individuale, che nulla ne sapranno della trascendenza della persona, e dei livelli superiori dell’essere e dell’intelligenza. Che nulla ne sapranno della realtà, dei suoi gradi, del suo arco ascendente, del suo arco discendente. Nulla di tutto questo. Tanto da sentirci rispondere con arroganza, al tempo dei nostri studi universitari, ad una nostra domanda peraltro bene argomentata, che “qui non si fa “filosofia” nientemeno, pover’uomo!
La qual cosa, come già dicevamo, non sarà certo da addebitarsi esclusivamente agli ebrei tralignati ed al Talmud, quantunque essi vi abbiano avuto indubbiamente una parte tutt’altro che trascurabile, ne conveniamo. Quella dell’uomo ario moderno d’Occidente, fu una sua difficoltà, sulla quale il giudeo tralignato s’inserì, promuovendola ulteriormente con successo, ma non certo una sua creazione esclusiva, come fu per il Protestantesimo e per il Rinascimento, la cui nascita, all’origine del mondo moderno e contemporaneo, meriterebbero un’ulteriore, approfondita discussione. A meno di considerare giudei Lutero, Calvino, Michelangelo, Leonardo, Cartesio, e Kant!
Spacciare per genuina scienza aria quelle formule disincarnate delle università di tutto il mondo, che ebbero origine in Occidente, specialmente in quello che lo Splenger definisce il mondo “faustiano”, perennemente in bilico sull’inferno, ovverosia il mondo nordico, in peggiore in assoluto in questi tempi ultimi, è arbitrario e fuorviante, e non rende un buon servigio a quella stirpe, ammesso che essa esista. Perché non si tratterà certo di scienza, quale fu preconizzata da Parmenide, e dai sapienti di altre civiltà, ma di puro arbitrio d’indifferenza esistenziale, sospeso su di un nulla al quale pretende di ricondursi. La cosa sarà di assai difficile spiegazione, come dicevamo prima.
Il fatto è che in Occidente emersero, sulla scorta della cristianità paolina prima, e della riforma protestante poi, delle pulsioni infere, che fu assai difficile padroneggiare. Ci asteniamo in questa sede da ulteriori considerazioni, che sarebbero alquanto impegnative e complesse. Quello che sarà invece qui da sottolineare, è che sarà assai fuorviante auspicare, come fa il Thuring, un mero ritorno al Newton, all’anglo infernale, che pur fingeva di adorare Iddio, sia magnificato ed esaltato, inchinandosi ogni qual volta ne venisse proferito il Nome, da manutengolo simulatore della chiesa del Re d’Inghilterra nientemeno.
Il Newton, il formulatore numerico astratto ed indefesso di pretese e presunte leggi naturali, derivate peraltro da quelle del Keplero, nella loro asserita conformità sperimentale e sensibile ai fatti di natura. Essendo peraltro la colpa di entrambi, non solamente del primo, come invece pretendeva lo Hegel, ritenendo che tutto dovesse finire con leggi in effetti inconsistenti come quelle del Keplero. Quindi un ritorno alla trascendenza, all’intelligenza, alla realtà, che saranno, stando così le cose, l’opera prima. Si tratterà peraltro di un compito, a nostro modesto avviso, assai difficile e complesso.
Non trattandosi di un ritorno passivo, come in sostanza auspicato dal Thuring, bensì di tutto un ripensamento ispirato, capace di un discernimento fondato e fondante, come bene osserva Guenon, dato che non esistendo un male assoluto al nostro livello d’esistenza, non tutto quello che è stato prodotto nei secoli ultimi andrà gettato alle ortiche. Si tratterà solamente di reinterpretare ed reintegrare, alla luce di una conoscenza originale e completa sempre esistita, che attende di essere recuperata integralmente, facendo tesoro anche di tutto quello che ne permane tuttora. Nulla a che vedere con un’astratta “filosofia perennis”, ma semmai con una realtà sempiterna da recuperare.
Questo in primo luogo, in linea di principio, nel verso di un’ascesa trascendente attuativa, la quale andrà recuperata e riportata alla sua prima destinazione, essendo ai nostri giorni in una certa misura occultata, se non sempre dottrinalmente, almeno operativamente. Tutto questo nel verso della presenza anche sensibile dell’ultimo degli Intimi d’Iddio Altissimo, che Egli ce ne affretti la gioia, il quale attende solamente di manifestarsi ancora, nella sua stessa presenza di predestinato atteso. Così come anche nel verso operativo effettuale, che saprà dare il suo giusto luogo a tutto quanto gli si è sovrapposto.
Operando dunque nel verso della trascendenza, siccome già dicevamo, e dando tutto il suo senso, positivo o negativo che esso sia, a quanto gli si è preposto, e posposto, e sovrapposto. Non più dunque formule numeriche disincarnate, le quali lasciano il tempo che trovano, latrici di un mondo meramente mentale ed immaginale, ma invece realtà, anche nel loro aspetto operativo effettualmente, nel senso di quei bisogni comuni dell’uomo, che in precedenza erano stati sovente tenuti in non cale, facendone poi l’oggetto di una facile controversia distruttiva, per renderli mancipio esclusivo di artifici inferi per lo più futili.
Ad esempio, se dicevamo che la terra, sotto un riguardo eminente, andrà intesa in un senso esistenziale, liminale tra i livelli inferiori e quelli superiori dell’essere, previo alla dissoluzione tellurica ed infera, si renderà necessario essere capaci di collegare a questo suo statuto le pretese osservazioni sperimentali sensibili ed immediate, sfrondandole di tutti i loro arbitri, per dare loro il loro senso reale ed ultimo. Non tanto dunque una terra corporalmente piatta, facile bersaglio di atteggiamenti ridanciani, ma piuttosto il suo senso esistenziale reale ultimo, capace di darle il rilievo che le spetta.
Intendendone il senso di una curvatura, che si terminerà, a parte la perennità della sua reduplicazione circolare riferentesi al suo medesimo livello esistenziale, nel suo doppio senso risolutivo, e superiore, ed inferiore, sia nel verso superno della trascendenza, sia di contro in quello inferiore dei mondi tellurici ed inferi. Tutta un’elaborazione dunque minuta ed attentissima si renderà necessaria, radicata nella Rivelazione divina, alla quale spetterà ogni interpretazione, nel nostro senso liminale, ed in quello supero ed infero, che come dicevamo, non sarà mera opera umana, per il suo radicamento suddetto.
La quale elaborazione, eminentemente intellettuale, nulla lascerà a nessun diritto millantato ed all’arbitrio di un qualsivoglia essere umano tralignato, ma invece conformandosi al diritto superiore ed unico di colui che avrà ritrovato il suo contatto ed il suo nesso, già conculcatogli, con la trascendenza divina. E che da quell’altezza esistenziale che gli sarà dato di raggiungere ed ottenere, e saprà raggiungere ed ottenere, nel Divino Cospetto, saprà rendere ragione di tutto intellettualmente ed eminentemente, ed usare operativamente, in un senso attuativo discendente, tutto quello che ne viene.
Compito grandioso certamente, ma tutt’altro che impossibile, prima e specialmente all’atto di quello che sarà il palesamento di quell’Atteso Ben Guidato atto e pronto a rettificare il mondo, non solamente il nostro, ma tutti i vari mondi. Tanto che sarà egli a largire, come già dicevamo, nella sua completezza trascendente ed effettuale, una scienza novissima ed antichissima, radicata nella sempiternità dell’evidenza eminente della luce adamica e muhammadica, dell’intelletto primo trascendente, nello stesso Cospetto Divino, compito al quali noi stesso siamo e saremo tenuti a dare il nostro contributo.
Nulla di riduttivo dunque, nel senso di quel ritorno erroneamente auspicato dal Thuring ad aberrazioni precedenti, ma nel senso invece di una riformazione, la quale emenderà dandone ragione, sotto un riguardo affatto eminente, di tutto quello che di perverso sia il Waldner sia il Thuring rilevavano in una ricerca sensibile ed elaborazione dottrinale immaginale limitata all’orizzonte di questo nostro basso mondo corporeo. Non un ritorno a Galileo ed al Newton dunque, ma semmai a Platone, Plotino, e Parmenide, ed ancor a maggior ragione, un’avanzata trascendente alla Rivelazione Divina.
Non trattandosi di quella scienza ingannevole e fallace insegnata nelle università mondane dai suoi docenti saccenti, per lo più ignoranti, stupidi ed arroganti, imposta al mondo dalla perversione infera dei poteri forti, nel dominio transitorio del loro momentaneo trionfo. Ma invece nel senso dell’universalità che compete a quella conoscenza reale, trascendente ed effettuale, non tratta da una mediazione infera fuorviante destinata alla presenza dell’ira e della punizione d’Iddio Altissimo, Ne sia esaltato l’Essere, ma da Lui ispirata invece all’essere umano per il tramite dei Suoi Intimi.
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