di Abdullah.
Nel Nome d’Iddio Altissimo
Erano oramai oltre due anni che mancavo da quest’Italia disgraziatissima ed infelicissima, avendola lasciata già in condizioni le quali erano a dir poco abominevoli. Il mio ritorno fu oltremodo increscioso e doloroso. Nessun apparente cambiamento tra la sua gente sventurata, che non fossero peggioramenti continui. Il solito previo andamento, vale a dire, un misto di mediocrità e di bassezza, di rassegnazione, e di malcontento a mala pena dissimulato. Ma i fatti vergognosi, a dir poco, della sua vita pubblica, lasciavano ben poco da sperare per il futuro immediato. Già prima ne avevo avuto un qualche sentore da lontano, da conoscenti e da congiunti, nel mio rifugio estero. Ma non mi sembrava che fosse possibile scendere ancora più in basso di prima.
Quello che risaltava agli occhi di un osservatore, anche il più disattento, era tutta un’accelerazione continua di fatti e di spettacoli assolutamente deplorevoli, i quali non facevano se non mettere ancora di più il dito nella piaga già purulenta, per farla apparire ed essere ulteriormente esacerbata. Ricordo le amare osservazioni sconsolate che, già alcuni anni or sono, almeno trenta, mi era capitato di fare in compagnia di un ottimo fratello, da tempo purtroppo, purtroppo per noi e non per lui, passato a miglior vita. Si trattava del vestiario a dir poco sconcio delle donne italiane, a cominciare dalle più giovani, e non solo di quelle purtroppo, e non parleremo per ora delle magagne successive, come i tatuaggi, maschili e femminili indifferentemente.
Si trattava del loro progressivo denudarsi, specialmente d’estate, e non soltanto d’estate, il tutto nel segno di un continuo snaturamento, di una progressiva degradazione, di una successiva maschilizzazione, cui corrispondeva da contrappeso l’indole sempre più femminile di molti maschi, di pari passo con la bestialità accentuata di taluni, che nulla lasciavano presagire di buono quanto a future qualità. Sarebbe questa dunque, mi era in seguito venuto da sospettare, la questione e la vicenda della progressiva e continua unione, unione e non unità, come va qui attentamente rimarcato, nel verso di un unico sesso, di un’unica razza, di un unico stato, di un’unica nazione, di un’unica religione? Ma quali? Tutti uniti! Ma scusi, quello non è Lucifero?
Il tutto, va qui sottolineato, senza nessuna qualità, che non fosse infima ed abominevole, a dispetto della pretesa indifferenza, nel verso di un’ulteriore regressione nel verso della materia prima, dell’essere indeterminato, e da ultimo del nulla dissolutivo. Va osservato, a questo medesimo riguardo, e già altrove in precedenza l’avevamo osservato, come l’unità proceda sempre dall’Uomo Perfetto e dalla sua Scaturigine Divina Suprema, nel senso di una serie di qualità discendenti progressivamente distinte, ma non separate, uniche ma non une, soprattutto nei suoi livelli superiori, tutto questo a procedere dall’Identità Suprema, nel senso di un progressivo distinguersi, il quale avrà la sua ragione nella superiore perfezione del singolo livello esistenziale.
Solamente più in basso, di livello in livello, una successiva separazione e confusione, tutt’altro che contrapposte anch’esse, specie nel senso dei livelli tellurici ed inferi, i quali non faranno che sovrapporsi progressivamente a quella distinzione ed a quell’unità superiori. Andando quindi verso il basso, da un certo livello in poi, avendosi tutta una serie di unificazioni fittizie, conculcatrici di quelle qualità, e ne abbiamo, specialmente ai nostri giorni, tanti esempi, dalle Nazioni Unite, agli Stati Uniti, all’Unione Europea, all’Unione delle Repubbliche Sovietiche, al Patto Atlantico, al Patto di Varsavia, essendo il patto anch’esso, per parte sua un’unione. Tutte quante realtà immonde queste, affatto disgregatrici, e prevaricatrici del bello e del buono.
Unione Europea la quale ha perso oramai persino quella sua primitiva qualificazione infima, oltre modo materializzata, ma non del tutto riduttiva, di “Mercato Comune del Carbone e dell’Acciaio” di pristina memoria, per procedere oltre nel verso della dissoluzione. Unificazioni le quali prescindono per partito preso da ogni qualsivoglia qualificazione nel verso della trascendenza divina, nel nome di un insieme di entità del tutto arbitrarie ed immaginarie, le quali pretenderebbero di stabilire, di definire, e di qualificare. Ma senza potere dare loro nulla, senza che possano nulla conferire, in ragione di un difetto previo, il quale sarà difetto di essere e di esistenziazione, se nulla possono il non essere e l’indefinito privo di perfezione.
Si tratterà di un’attuazione assurda ed inconsistente, di quello che non avendo nessuna ragione di essere attuato, si limita riducendosi a fluttuare su di una poltiglia indifferenziata, sul mare dell’imperfezione assoluta, donde pretende di trarsi, ma senza che quella imperfezione possa, per sua natura, nulla dargli. Ma nondimeno, ci si potrà obiettare, una qualche qualificazione questi enti spettrali la dovranno pur sempre avere. E questo andrà pur sempre riconosciuto ed attestato, ma nel senso che, in questo processo regressivo, tutti questi enti non potranno fare a meno di una qualche esistenza e della loro fonte, nell’attesa di un esito dissolutivo ultimo il quale, nella singola limitazione di ciascuno dei circoli universali, non potrà di fatto mai avere luogo.
Dicevamo qui di questa “umile Italia”, e ci rifacciamo al grande Vate, al Padre Dante che già ai suoi tempi, oltre settecento anni or sono, aveva acutamente già intravisto questo terribile processo regressivo, rimanendone profondamente sconvolto, e condannandolo senza appello. Essendo peraltro questa una vicenda di corsi e ricorsi, per dirla con Giovanbattista Vico, se già anche millesettecento anni prima di lui Socrate e Platone avevano ravvisato nella forma di governo e nei costumi dell’Atene del loro tempo non certo il fastigio delle vicende umane, come si va facendo anche oggi per quelli contemporanei, ma un processo regressivo liminale, per quanto non fosse ancora definitivo.
Processo che allora, come dicevamo, ben lungi dalla sua consumazione finale e dal suo sigillo, faceva invece parte di tutta una serie di corsi e di ricorsi successivi, che andavano inseriti a loro volta nell’insieme complessivo delle vicende del genere umano, con le sue varie partizioni, così come peraltro già Platone aveva acutamente ravvisato nel suo Timeo, ed in quelle vicende distruttive delle singole umanità delle quali ivi si tratta. Ma ora, la differenza tra la regressione del tempo di Dante, che è anche la nostra regressione, e quella del tempo di Socrate e di Platone, sarà che la prima delle due accenna già, senza che peraltro Dante potesse nemmeno lontanamente sospettarlo, ad una sua consumazione e progressione verso un esito finale.
Che differenza tra quella Firenze, per la quale “Quanto fora meglio averle per vicine quelle genti ch’io dico, ed al Galluzzo, ed a Trespiano avere vostro confine”, senza dovere “sostenere il puzzo del villan d’Aguglion”, al punto che “è fatto fiorentino, e cambia e merca, qual si sarebbe volto a Semifonte, là dove andava l’avolo alla cerca”, e la Firenze, l’Italia, l’Europa, il mondo dei nostri giorni, con tutte le loro magagne, e con tutti i loro orrori! Quel processo della “volontà popolare” in mano a “demagoghi”, vale a dire, ai capi popolo “democratici” dell’Atene di Socrate e Platone, senza qualificazione morale ed intellettuale, si è dilatato a dismisura, andando a contaminare il mondo intero con le escrescenze cancerogene dei nostri poteri forti.
E quelle “sfacciate donne fiorentine”, che già ai suoi tempi andavano “mostrando con le poppe il petto”, che avrebbero richiesto l’intervento deciso delle autorità religiose, hanno oramai ceduto il campo, anzi si sono aggiunte ed innestate su ben altri orrori ributtanti ed innominabili. Già quel processo dell’inversione sessuale, che uno dei commensali del Convito platonico pretendeva di rivendicare con orgoglio agli elleni nei confronti dei cosiddetti “barbari”, proprio così come si fa proprio ai nostri giorni per i moderni, in realtà uno dei segni appariscenti della caduta, trasposizione dell’errore e dell’orrore di Sodoma, con quello della Lesbo d’allora, non faceva se non preconizzare fatti ancora più gravi, nella loro estensione e profondità.
Dicevamo dunque che le aberrazioni e gli abusi dei tempi di Dante, che pure lo facevano inorridire, così come quelli dei tempi di Socrate e di Platone, venivano ad essere solamente la premessa amara di fatti successivi, i quali sarebbero stati ancora più gravi. Il processo dissolutivo ulteriore ebbe la sua radice, od almeno una delle sue radici, forse la più appariscente, peraltro involontaria, nella suadenza e nello splendore della corte siciliana di Federico Secondo di Svevia, Imperatore Romano, Re di Sicilia, e Re di Germania, nelle sue leggi, nelle sue arti che tendevano purtroppo al profano. Nulla per il momento che potesse farne presagire l’esito infero, funesto e dissolutivo, che ne sarebbe venuto in seguito a danno dell’intero genere umano.
Corte la sua assai simile a quelle orientali, con un potere assoluto sì, ma nondimeno illuminato in tutta la sua scaturigine sacra, seppure a dispetto delle invidie, delle incomprensioni, e delle prevaricazioni pontificie, aperta com’era alle meraviglie dell’Oriente sotto il profilo fattivo e della conoscenza superiore, quella di Federico Secondo di Svevia, che nondimeno pur sempre “fu d’onor sì degno”, come ci dice Dante, diede origine purtuttavia, seppure a sua completa insaputa, a tutto un processo che sarebbe stato in seguito nefasto per l’intera umanità, menandola sulla via di una regressione infera umanamente irrimediabile. La prima corte rinascimentale la sua venne detto, vale a dire, il primo deciso fomento di umanizzazione e secolarizzazione.
Già quella cristianità paolina che Paolo di Tarso aveva sovrapposto all’ispirazione originale di Gesù, la pace su di lui, aveva finito con l’imporre al mondo occidentale una divisione, anzi una vera e propria cesura, quella tra potere temporale ed autorità spirituale, la quale, seppure all’inizio in parte colmata, aveva in sé delle fessure che sarebbero state in seguito difficilmente rimediabili. “La legge uccide, lo spirito salva” pretende Paolo, e questa sarà una vera e propria maledizione, la quale l’Occidente dovrà portarsi dietro. Nell’Oriente musulmano, una fessura equivalente, la quale aveva escluso dal governo della comunità la Famiglia del Nunzio Divino, pur senza togliere la Legge Sacra, poco di buono faceva per parte sua presagire.
Nell’Oriente Estremo, i Sovrani confuciani traevano significativamente, da tempi antichissimi, il loro potere divino dalla trascendenza celeste, ma il loro progressivo limitarsi nel senso dell’elevazione, non sorretta da nessun ulteriore intervento divino ascendente che ne corroborasse la legge sacra, avrebbe portato ad un’obliterazione in quel verso medesimo. Obliterazione la quale, dopo secoli e secoli, e dopo ulteriori splendori, specialmente quelli ultimi dell’età dei Ming, li avrebbe offerti alla fine quasi inermi, ridottisi peraltro ad un’oppressione arbitraria niente affatto ispirata, agli orrori dell’aggressione occidentale, la quale avrebbe fatto un ben altro uso devastante, con cannoniere e con cannoni, dei loro precedenti innocui fuochi d’artificio.
L’India vedica si liberò sì dall’intromissione invadente dei seguaci del Budda, che in definitiva non faceva se non separare nettamente e velleitariamente il mondo e l’uomo da Iddio Altissimo, lasciandoli alle loro mere forze, riducendoli a vagare entro una legge affatto cieca, alla quale egli si adoperava, ma senza nessuna ispirazione divina, di consentire loro di rimediare. Ma obliterava per il difetto suddetto sulle vie dell’ascesa a Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, la Sua ispirazione originaria, vale a dire, la legge primordiale di Manu, dopo di quella che sarebbe stata l’ultima antichissima manifestazione divina, vale a dire, quella di Krishna, all’inizio dell’età del ferro. Poi nulla, a dispetto del permanere di certi tesori sapienziali.
Chiudendosi in sé stessa, senza che l’Islam, in definitiva rifiutato, a dispetto del sigillo della sua Rivelazione definitiva, valesse ad emendarla, ad onta degli interventi rettificatori non invadenti che si ebbero da parte persiana al tempo dei safavidi, ad opera dei seguaci della Famiglia del Nunzio Divino, sino agli orrori successivi della penetrazione anglo massonica, vera macchina da guerra infernale che l’avrebbe quasi del tutto snaturata, riducendola alla fine alle presenti tristissime condizioni Tutto questo per limitarci a quegli universi umani a noi più noti, senza inoltrarci in ulteriori disamine assai difficoltose e complesse, certamente non di nostra spettanza. Ben diversamente andranno le cose da noi in Occidente, vale a dire in Europa.
La prevaricazione del mondo secolare che era stata lamentata da Dante, dopo quella di Socrate e Platone, finirà col produrre non un’obliterazione, come sarà per quei mondi suddetti d’Oriente, ivi incluso quello musulmano, nel quale peraltro nessuna esclusione o limitazione avrebbe potuto porne del tutto in non cale la genuinità del Sigillo giuridico del Messaggio Divino. Ma porterà qui ad una liberazione mostruosa di forze secolari e materiali, che si sarebbe rivolta contro il mondo intero. Dicevamo che si trattò non tanto un’obliterazione, quanto piuttosto di una sopraffazione, la quale lasciava una delle due parti, quella più prettamente materiale e secolare, del tutto libera di vomitare il suo potere mostruoso sugli altri popoli e sulle loro culture genuine.
Potere affatto devastante di prevaricazione e di distruzione il suo. Ma fu proprio l’autorità spirituale d’Occidente, vale a dire il Pontefice Romano, lo osserva bene Dante, una delle cause almeno di quel conculcamento e di quella rovina. L’autorità pontificia si appoggiò alle forze produttive e mercantili, in particolare a quelle bancarie usuraie di matrice giudaica, in definitiva contro sé stessa, nel suo delirio di gelosia contro quello che, a suo fallace avviso, le contendeva il campo, quel dominio temporale il quale era anch’esso d’ispirazione divina, al quale essa aveva di fatto rinunziato con l’innesto paolino, e che nulla, se non l’intervento divino, diretto o mediato, avrebbe potuto restituirle, a dispetto di quell’abuso, e delle sue pretese successive.
Innesto il quale, facendola finita con la legge mosaica, si apriva nondimeno dall’altra, parte volutamente o no che fosse, al meglio del mondo pagano d’Occidente, coi suoi previi tesori giuridici e sapienziali. Riconoscendogliene sì il diritto, vale a dire, la stessa indole sacra, quella medesima rimarcata da Cicerone con il suo “Lex est ratio tracta a numine deorum”, vale a dire “Dei”, ma senza che, in assenza di un’unità affatto vivente e palese la quale venisse a farsi carico d’entrambi i lati, s’innestasse se non in un’unicità reale sì a suo modo, nel senso di una sua origine trascendente, ma in definitiva affatto esteriore e precaria, in assenza di una sua perspicuità unitaria personale la quale le venisse dal suo superiore diritto.
Da un lato dunque i Ghibellini, in lingua germanica “gli amanti della donna” del Paradiso, della Sapienza Santa preconizzata da Dante, l’“Hagia Sophia” dei cristiani orientali, dall’altra parte i Guelfi, Welf o Wolf, i lupi, nella stessa lingua, i divoratori, per la loro prevaricazione, di carne, e di sangue, e di anime umane. Che ancora oggi, per via della loro usurpazione e della loro discendenza, sovente femminile, così come usurparono il potere ai danni della nobiltà guerriera e terriera di reminiscenza platonica, usurpano ancora oggi la corona inglese, dopo la cacciata degli ultimi Stuart, l’estromissione di quanti erano rimasti fedeli al pontefice romano, ed il trionfo finale protestanti ed anglicani, triste premessa all’oppressione bestiale di tutta una parte del mondo.
Forze dunque queste ultime, vale a dire le forze della secolarizzazione, le quali, dopo la corte di Federico prima, e quelle rinascimentali poi, che facevano seguito al potere dei banchieri giudei ed italiani, a Firenze i Bardi prima, ridotti alla bancarotta dall’insolvenza inglese, i Medici dopo, in seguito messisi da parte nell’imitazione senza trascendenza della nobiltà terriera, i Pontefici Romani avevano esaltato contro sé stessi. Favorendo dapprima la suddetta umanizzazione rinascimentale, con i suoi fasti secolari ingannevoli, ma rimanendo poi vittime di quella protestantizzazione, la quale avrebbe spezzato in due l’Europa con la sua irruzione, privandone tutta una parte di ogni suo tragitto alla trascendenza vale a dire, di ogni divina mediazione.
Ad Oriente, i resti di un Impero, che non subiva, nonostante l’interpolazione paolina, le sorti dell’Occidente, mercé di quelle indipendenze locali che, nel loro legame diretto con un potere non progenie della barbarie, riducevano al minimo, specialmente quella principale di Costantinopoli, nella separazione dal Pontificato Romano, il rischio della non perspicuità separativa, sino alla conquista ottomana, che consentirà ne fosse conservato intatto il prezioso patrimonio sapienziale, sino agli esiti framassonici della rivoluzione ellenica, ed oltre. Con l’aggiunta provvidenziale di quella Russia, che avrebbe resistito indenne alla prevaricazione di Pietro, ed alla successiva rivoluzione.
Innestandosi, come dicevamo, il tronco costantinopolitano sui rami del nord, o slavi, oppure annessi al tronco slavo, come per la Russia, che si aggregò provvidenzialmente l’Islam dei tatari di Kazan, sino agli esiti prevaricatori e modernizzazioni di un Pietro tutt’altro che Grande, come rimarcano giustamente gli Eurasisti, e dei suoi successori, ma tanto da sopravvivere, sino agli esiti odierni forieri di speranza, e ai suoi abusi persecutori, certo i peggiori, ed a quelli della successiva rivoluzione. Tanto che ai nostri giorni la compagine orientale sopravvive all’irruzione dei seguaci americani di Calvino nelle tre autorità del Monte Athos, di Costantinopoli, e di Mosca.
L’Oriente musulmano sopravviveva anch’esso, per l’inconcussibilità della Legge Sacra e del suo Sigillo, pur nella estromissione della Famiglia del Nunzio Divino. Anzi dava luogo ad un tronco provvidenziale, legato a quella medesima Famiglia, il quale, innestatosi nell’Iran dei Safavidi ad un ramo della sovranità assoluta, sarebbe riuscito miracolosamente a sopravvivere a quella stessa parziale modernizzazione, specie quella dei Pahlavi, dei Cesta d’Asino, sino agli esiti provvidenziali ultimi, contro ogni secolarizzazione e modernizzatrice, sino ad un governo tratto dalla Legge divina che, a Lui piacendo, sopravviverà sino a quello dell’Intimo d’Iddio Altissimo, oggi a noi occulto.
Dicevamo dunque che quell’“umile” Italia di Dante verrà ad essere latrice di tutta una serie di trasformazioni devastanti, alle quali sarebbe stato in seguito assai difficile rimediare. Il potere dei banchieri, giudei e non giudei, e delle città stato indipendenti dall’autorità spirituale e dal potere temporale, vale a dire, dall’Impero Romano Germanico, ed in lotta accanita contro la nobiltà terriera e guerriera, appoggiate dapprima assai incautamente dal Pontefice Romano, si rivolse alla fine contro di lui, sino alla prevaricazione estrema del Riforma Protestante, con tutte quelle magagne che ne sarebbero derivate, anche indirettamente ed internamente, in termini di dottrina e di azione.
Innestandosi quest’ultima in due rami, l’uno con Lutero, in piena separazione dal potere temporale, a cui veniva a dare un’apparente legittimazione esterna. L’altro con Calvino, che si arrogava addirittura il diritto di costituire uno stato assoluto, preteso ispirato, ma solo umanamente, o dagli inferi, che faceva piazza pulita di tutti i pretesi orpelli della tradizione, ma aggravando il difetto di mediazione, di via alla trascendenza divina, nel senso di uno stato oppressivo prettamente secolare, ma indebitamente deificato, che verrà in seguito salutato da male illuminati personaggi, come il Croce, come forma eminente di religiosità e libertà, in attesa di esiti peggiori.
Sino agli ultimi esiti aberranti ed inferi degli Stati Uniti d’America, della loro religione mondana e luciferina, della loro prevaricazione pretesa emancipatrice, esito estremo degli orrori della Ginevra di Calvino, e possiamo anche dirlo, “Summa” di tutti gli orrori mondani Od a quella famigerata “religione della libertà” del Croce, risultato ultimo di arbitrio e di degradazione di un preteso “spirito” che pretende di salire da sé, sollevandosi per il ciuffo. Ma non è a tutto questo che voleva volgersi il nostro presente discorso, ma bensì, come già prima dicevamo, a quell’“umile Italia”, la quale ancora attende il suo salvatore preconizzato da Dante più di settecento anni or sono.
Già vessillifera del Rinascimento umanizzatore, verrà superficialmente toccata dalla protestantizzazione, per il tramite di personaggi isolati, come quel Galeazzo Caracciolo napoletano, transfuga ginevrino, già ricordato ed esaltato dal Croce, o come Socino unitario, che nega sì la Trinità, ma senza nessuna compiutezza, togliendo all’Unità Divina le sue prerogative. O come quel Sarpi che, esaltando nel nome della libertà il sanguinario Giacomo d’Inghilterra, vedeva nella fallacia della secolarizzazione protestante nientemeno che un ritorno alla cristianità primitiva, conseguibile con la rinunzia all’innesto paolino, ma in virtù dell’annunzio legiferante dalla trascendenza.
L’Italia dorme, così come anche ai nostri giorni, od almeno finge di dormire. Esuberanza artistica, ma niente affatto ispirata, ancora promossa dai Pontefici Romani, qualche sprazzo di vitalità culturale, peraltro a quel tempo ancora inevitabile, sovente al seguito delle fallacie delle vie transalpine, dimenticando i propri Dante e Tommaso d’Aquino, schietti platonici a dispetto della loro indole di facciata apparentemente aristotelica, ancora splendori nelle discipline sonore, dopo il Palestrina rinascimentale, sino allo Scarlatti, il cui afflato si riconduceva, a differenza di quanto avveniva ed avverrà in Germania, all’unità Divina, senza contrappunti che lo spezzassero.
Stati assoluti, con una consacrazione liminale, in un assurgere prettamente formale all’autorità spirituale, che si manterrà in maniera liminale, sino nei casi estremi, i più aberranti, sino e dopo l’ingannevole unità nazionale, nella prevaricazione framassonica piemontese. Ma se l’Italia dorme, non dorme invece l’Europa. I cosiddetti pretesi lumi si appropriano dell’Europa, in un ulteriore conato di umanizzazione, tra l’indifferenza e l’ostilità del popolo, specialmente quello rurale. E la Rivoluzione Francese travolgerà poi tutto, pur non coinvolgendo quell’Inghilterra già consumata dai suoi abusi precedenti, destinata ad altre ed ancora più gravi usurpazioni, come una quinta colonna.
Un falso principio, un principio nuovo, o meglio rinnovato, esistente sì in passato, ma subordinato a quei principi superiori che rendevano i Romani, lo dice Cicerone, “religiosissimi homines”, senza dire nulla qui della usurpazione secolare Inglese, della caricaturale “Religione del Re” ivi affermatasi, s’impone in tutta indipendenza a farla da promotore, come pretenderà il Mazzini, di una velleitaria ricostruzione, ma non certo di un’unità dall’alto, ispirata effettualmente dai principi superiori della trascendenza divina. Vale a dire, s’impone a farla da promotore di tutta una pretesa ricostruzione dal basso, di una velleitaria ed inconsistente creazione infera.
“Sono italiano” dunque. Ci si arroga un’immaginaria preminenza, la quale, nel pretendersi morale e culturale, non potrà fare a meno, per la sua stessa natura, quanto alla sua concretizzazione effettuale, di una continua e generale prevaricazione. Perché solamente Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, soltanto l’Unità Trascendente potrà stabilire ed imporre dei limiti. Quella framassonica, e materiale, ed indeterminata, ed infera, non sarà in grado di creare, né tantomeno di definire nulla, ed ogni pretesa limitazione si ridurrà ad una serie di definizioni instabili, in urto l’una contro l’altra, il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes, o l’“homo homini lupus” degli antichi.
Quello del Mazzini è un sogno empio, una vana immaginazione umana, anzi una mera aberrazione, in ragione delle sue premesse e dei suoi risultati, che costui o ignorava colpevolmente, o teneva in non cale in tutta malafede. La nazionalità lasciata a sé stessa, senza principi superiori trascendenti donde venga dedotta, si riduce a mera, gratuita violenza. Il Tommaseo, seguace e nemico di Gregorio Pontefice Massimo, pretendeva d’ignorarlo e di dargli addosso per la rivoluzione framassonica polacca da lui biasimata, foriera di una secolarizzazione peggiore di quella del governo modernizzatore assoluto dei Sovrani Russi, com’era stato per la rivoluzione ellenica esaltata dal Nievo.
Ora queste rivoluzioni framassoniche avevano in definitiva tutte quante la loro radice in quel suddetto difetto di perspicuità dell’unità trascendente quanto a quello che da lei deriva, dato che la legittimità del diritto regale divino fondata sul diritto romano germanico, vale a dire, quella tenue connessione di potere temporale e di autorità spirituale la quale pur sempre continuava a sussistere, era stata intaccata dalla rivoluzione framassonica francese, ed ancora prima, da quelle particolari d’Inghilterra e d’Olanda, lasciando il campo a tutto l’orrore successivo delle umane nazionalità a dispetto delle pretese d’eguaglianza, anch’esse conseguenze dell’incapacità creativa.
Lasciando a sé stesso un Pontificato Romano oramai quasi del tutto inerme ed affatto impotente, già gravemente mutilato dalla protestantizzazione di mezza Europa, a piangere su quelle che non erano se non le conseguenze delle sue improvvide iniziative precedenti, se non sulle magagne originarie, del tutto incapace oramai di porvi rimedio. Iniziative e prevaricazioni le quali furono a suo tempo giustamente e magistralmente condannate da Dante, così come aveva fatto in precedenza anche Platone per i mali consimili dell’Atene del suo tempo, in attesa che il succedersi dei corsi e dei ricorsi delle vicende umane venisse a condensarsi in un senso deleterio ultimo.
Come dunque dicevamo, un Occidente abbandonato al triste destino della secolarizzazione trionfante, a dispetto della sopravvivenza liminale dell’autorità pontificia. Un Impero Russo in attesa che se ne consumasse la prevaricazione modernizzatrice d’indegni sovrani secolarizzatori, nella sopravvivenza della sua Cristianità atta a fornirle un rimedio, come sta avvenendo ai nostri giorni, un Califfato Ottomano lasciato anch’esso, mercé del suo rifiuto delle Genti della Casa, al difetto di perspicuità dell’unità trascendente del potere temporale con la giurisprudenza e la scienza sacra, che l’avrebbe poi aperto alla rovinosa intromissione giudaica, coi suoi nefasti esiti modernizzatori.
E un’India moribonda sotto il tallone spietato dell’uncino britannico divoratore uomini, priva oramai da tempo di una legge sacra, a dispetto di alcuni lodevoli innesti trascorsi della trascendenza musulmana, di quella sciita al tempo dei safavidi, ma pur sempre insufficienti a dare vita dall’esterno ad un corpo moribondo, peraltro presto vanificati dall’intromissione massonica inglese, a dispetto delle lodevoli eccezioni. Una Cina anch’essa inerme, ridotta ad un arbitrio sovrano che si riduceva a mera oppressione, rigettando la sua ispirazione celeste, nel difetto della vita di un innesto trascendente.
E l’Italia? Quest’Italia, “per cui morì la vergine Camilla, e Eurialo, e Turno, e Niso”? Dov’è il veltro atto a difenderla dalla prevaricazione secolarizzatrice della lupa pronta a sbranarla? Forse Guida di cacciatori di bestie infernali? Terra di vitelli sacrificali, o della vita? Avevamo omesso dalle precedenti menzioni, il caso di quell’Iran dove, dopo il felice intervento dei Safavidi a pro della Gente del Nunzio Divino, che pur si rifacevano a quel difetto d’unità oramai di tutto il mondo musulmano, pure serbava in sé il germe dell’Unità Trascendente, che avrebbe spazzato via Re incapaci, o rinnegati, o oppressori, respingendo il tentativo di penetrazione e snaturamento degli stranieri.
In Italia, nulla di simile nel Pontificato romano, ad onta di certe sue rimarchevoli e lodevoli resistenze, come nel caso del Sillabo di Pio IX, o della condanna del modernismo di Poi X. Come già prima dicevamo, il tutto per il difetto di un’unità trascendente e perspicua, che avesse a farsi valere nel dominio dell’effettualità della cosa pubblica. Le vecchie regalità erano state oramai intaccate dalla Rivoluzione Francese, a nulla essendo valsi, a dispetto delle loro velleità in tal senso, i due successivi imperi napoleonici nati dalla frammassoneria, ma in rivolta contro di lei, contro il riconfluire della Francia nel mare magnum della secolarizzazione nazionalizzatrice framassonica.
L’Inghilterra infame torna a guidare la squallida tresca, avvalendosi della sua regalità empia ed invertita, una delle prime, se non la prima in assoluto, delle vicende europee, a cominciare specialmente da Elisabetta, la bastarda sanguinaria, pronta a farsi strumento e attivo e passivo della prevaricazione secolarizzatrice framassonica e giudaica. In Italia una sopravvivenza, seppure rimarchevole, nel Regno delle Due Sicilie, nello Stato Pontificio, e negli altri stati minori, tutta incentrata attorno alla reminiscenza austro asburgica del Sacro Impero Romano Germanico, ridotto ad una sopravvivenza seppure lodevole, ad onta dei colpi inferti dall’avventura napoleonica.
Dietro di tutto, quella Santa Alleanza composita tra austriaci pontifici, prussiani protestanti, e Russi riformatori, incapace di rianimare, a dispetto dei suoi sforzi pure lodevoli, un corpo moribondo in nome della “legittimità”, del resto in lei manchevole, a motivo della sua suddetta composizione. Entra qui in gioco una questione cruciale, quella della legittimità, messa in discussione in Italia principalmente dal Mazzini e dal Tommaseo, dall’uno e dall’altro in nome di una pretesa “volontà popolare”, antesignana degli orrori della famigerata “democrazia” odierna. Ai quali si potrebbe aggiungere peraltro un Gioberti, fautore in definitiva di un pontificato affatto secolarizzato, messo al servizio di quella “volontà popolare”.
Ora in primo luogo, quegli stati godevano di un quasi assoluto appoggio popolare. In Lombardia, al grido di “viva Radetzky” nel 48, nelle Due Sicilie, con lazzari e pretesi “briganti”, nello Stato Pontificio, che anzi attirò nell’estremo bisogno volontari da tutta Europa, nei Ducati, persino in Piemonte, così come nel resto del Continente, a cominciare dalla Spagna, dalla Vandea, dalla Germania, i popoli erano insorti già al tempo della Grande Rivoluzione contro la prevaricazione giacobina, sedicente popolare, in difesa dei loro Re e dalla loro fede, specialmente in quelle terre che si rifacevano all’autorità pontificia, e la cosa continuò anche dopo, a dispetto delle pretese liberalizzatici.
Ma questa non è certo una ragione di legittimità, ma solamente una circostanza, o conseguente, o concomitante. L’insurrezione non era certo in nome della nazionalità, non lo pretendeva neppure il Mazzini, riferendosi al caso spagnolo e vandeano, o contro uno straniero, aborrito sì, ma solo in quanto portatore d’innovazioni deleterie, come nel caso della Russia già in via di modernizzazione interna. Vi era, almeno per le terre a lui sottomesse, l’avallo del Pontefice Romano, ma neppure questo era una ragione sufficiente, tanto che quell’avallo l’aveva ricercato lo stesso Napoleone Bonaparte, l’erede dei giacobini. Tutti ignoranti e retrivi, preti, popolo, nobili genuini?
Il Tommaseo metteva maldestramente in ridicolo gli asserti di legittimità, per lui risibili, del Duca di Modena, ma in nome di un’inesistente volontà popolare, che peraltro egli calpestava nel farsene vessillifero, tanto che sarà nel Nome del Duca che poi il popolo difenderà i suoi diritti contro l’oppressione liberale dell’invasione piemontese. Né la continuità effettuale vale nulla a questo riguardo. “Mos Maiorum”, dicevano i Romani Antichi, ma che cosa sarà mai il “Mos Maiorum”? Sarà forse da equipararsi alla temperie innovatrice e regressiva, ed agli orrori della “common law” degli anglosassoni, ci si perdoni l’uso del termine barbaro, peraltro costume dei nostri giorni oscuri ed infelici?
Il Mos Maiorum sarà la trascendenza divina, vale a dire, la Legge d’Iddio Altissimo, o di natura, o rivelata, quella medesima che si era in un qualche modo attuata nel diritto romano, non per nulla oggi conculcato ed obliterato, e nei suoi istituti pubblici, seppure talvolta manchevoli, traentesi dal “numine deorum”, per dirla con Cicerone, o meglio qui per noi “Dei”. Che tutti, il popolo, il ceto produttivo, la nobiltà, i sacerdoti, avevano accettato per il tramite pontificio, ed imperiale, o regale, a riconoscimento di un qualcosa che, in definitiva, veniva dalla Volontà d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, a rimarcare in definitiva la natura trascendente dell’uomo.
È difficile ravvisare i modi di questa derivazione, il che apre la porta a discussioni delicate. Gli orientali non riconoscevano la legittimità dell’Impero di Carlo Magno, il tutto riportando alla scaturigine romana orientale, conculcata dalla prevaricazione pontificia coi carolingi prima, e coi normanni poi nell’Italia del Sud. I musulmani ravvisavano nel tutto una carenza di promulgazione della Legge Rivelata, ad onta delle loro lacune quanto ai diritti delle Genti della Casa, pur con le parziali reintegrazioni dovuta alle famiglie dei loro discendenti alidi, ma senza il riconoscimento delle Guide, o con quelle fondate sulla giurisprudenza sapienziale dei loro eredi designati.
In definitiva, in Occidente la legge romana era limitata da due vizi annessi alla sua origine, oltre a quello fondamentale paolino, il vizio del suo essere fondata su vari e vani simulacri, speciosamente assunti al di là della loro funzione mediatrice, e quello della successiva associazione trinitaria in divinis, che veniva fatta passare per l’Essenza stessa dell’Altissimo. Ma secondo la sua origine, al di là dei suoi successivi tralignamenti, non potrà in definitiva se non riferirsi in primo luogo al messaggio originale adamico, ed alla sua successione, per il tramite di quelle funzioni fondamentali d’annunzio e d’estrinsecazione, che Iddio, sia magnificato ed esaltato, ha largito ad ogni popolo.
È questa la ragione del divieto dell’innovazione, quando a corroborare il messaggio ulteriore non vi sia chi gli sia deputato, latore dell’abrogazione di quello precedente. Ed è così che queste strutture pubbliche e giuridiche potevano vantare una loro origine, per quanto alterata, radicata fondamentalmente nella trascendenza divina, o direttamente oppure per ripetuta successione, donde il divieto di abrogare o di mutare quello che Iddio sia magnificato ed esaltato, aveva così largito. Ed è in questo modo, che pure in Europa, nel cuore dell’Occidente, agli inizi del secolo diciannovesimo, qualcosa di originale continuava pur sempre a sussistere ed a resistere.
In primo luogo, per quell’Impero Asburgico, già anche per denominazione Romano, e Sacro, oltre che germanico, il quale continuava a fare sopravvivere l’Impero di Carlo Magno, e per suo tramite, lo stesso Impero Romano d’Occidente. Eredità illegittima quella di Carlo Magno? Già per ben due volte l’Impero Romano, sia pure quello d’Oriente, aveva fatto difetto, prima con Irene, una donna, al tempo di Carlo Magno, che pure gli orientali definiscono pia, forse usurpatrice, e forse provvidenziale contro le innovazioni del figlio da lei destituito, poi con la conquista ottomana, che lasciò purtuttavia intatte le strutture spirituali dell’Ellade Cristiana, limitandosi a sostituirgli un potere temporale, una struttura pubblica esternamente alternativa.
Pur nel suo difetto di completezza, e nella sua suddetta estraneità, che avrebbero a lungo andare, nell’assenza di una guida vivente e evidente, se non visibile, prodotto i loro frutti velenosi, come avevamo già accennato. Con tutto questo, permaneva pur sempre in Occidente una reminiscenza del Sacro Impero, sempre più debilitata, dopo i fastigi degli Hohenstaufen, col loro fallimento, avendone la prevaricazione pontificia vanificato il tentativo di universalizzazione federiciana, che s’aprì ed all’oriente elleno romano, ed a quello musulmano, pure tra i primi conati di secolarizzazione cui avevamo accennato, specialmente nell’arte, e nel governo, come osserva giustamente Evola.
E dopo i successivi tentativi falliti di Arrigo di Lussemburgo e di Lodovico il Bavaro, acclamato il primo da Dante come portatore di salvezza. Legittimità dunque questa, che rimandava le sue radici superne ad un mondo della trascendenza divina non ancora del tutto obnubilato, il quale si faceva circondare da tutta una corte d’istituzioni foriere di legittimità, nella fattispecie in Italia. E non stiamo qui a discutere, il che sarebbe lungo e difficoltoso, della possibilità della perdita anche temporanea di questa legittimità, la quale può in primo luogo riguardare la persona e non la struttura, così come avvenne già nell’Impero Romano, con l’indegnità di taluni della Casa Claudia, e con le successive usurpazioni di semplici capi militari.
O può riguardare la struttura stessa, mercé di una prevaricazione che diventi istituzionale, come nell’Inghilterra dei Welf, poi Hannover, poi Windsor, o nei paesi Bassi dei mercanti calvinisti ribelli, “terra infera” in lingua germanica, foriera di falsità ed abusi, o nella Svizzera ribelle agli Asburgo, in attesa di diventare ricettacolo di mercenari ed usurai. O con la totale protestantizzazione dei mondi scandinavi, che ne trasse fuori di sana pianta tutto il patrimonio spirituale precedente, usurpandovi a danno del popolo i beni della classe sacerdotale, come avverrà più tardi in Italia, in attesa di farne un ricettacolo di modernizzatori pervertiti, con tanto di ridicoli Premi Nobel, a tutto disdoro di ogni scienza, e di ogni arte che siano degne di tal nome.
Laddove qualcosa rimaneva ancora negli stati germanici, più radicati nella legge romana, ed in particolare in quel Regno di Prussia, dove l’abuso degli Hohenzollern protestanti non era valso a privarla del tutto dal suo radicamento statuale, e giuridico, e spirituale romano, il che non avvenne per gli scandinavi, mercé del loro isolamento obliteratore. Rimaneva dunque in Italia, agli inizi agli inizi dell’800, tutto un insieme di legittimità, e ne abbiamo stabilito il senso contro le pretese e gli abusi del Tommaseo, incentrate attorno al palesamento secolare dell’autorità spirituale, vale dire, lo Stato Pontificio, e nella reminiscenza imperiale asburgica, con ampi addentellati nel nord dell’Italia.
A sud, il Regno delle Due Sicilie, rinato ad indipendenza un secolo prima, con un’origine spuria, nata dalla prevaricazione pontificia e normanna contro l’Impero Romano d’Oriente, traentesi dalla legittimità almeno parziale dei due primi elementi, con un suo imporsi simile a quello che fu dell’Impero carolingio, il quale aveva a che vedere con il debilitarsi progressivo dell’Impero d’Oriente, per farsi valere a modo di una forza radicata in una legittimità succedanea sì, ma pur sempre d’origine trascendente e romana, atta a farne nei suoi momenti migliori, come avvenne anche al tempo di Federico, un ponte con la cristianità d’Oriente e con l’Islam.
In effetti non debbono turbare più di tanto talune apparenti mancanze di legittimità, rilevabili ed innegabili sì, le quali potranno dare luogo, così per l’innesto paolino, come anche per quello carolingio, a realtà a loro modo provvidenziali, radicate com’erano in una loro legittimità trascendente, ad onta delle successive conquiste, che ne lasciavano pur sempre intatta la derivazione. Tanto che il Regno delle Due Sicilie, prima di Puglia e di Sicilia, poi di Napoli, poi Utriusque Siciliae Citra et Ultra Farum, ad onta di tutte le successive falsificazioni calunniose e malevoli dei liberali, ebbe un ruolo fondamentale in tal senso, sino al disastro dei Mille e della pretesa Unità framassonica d’Italia.
Al cospetto dunque di siffatte legittimità almeno parziali, dopo la iattura della Rivoluzione francese, e dopo l’avventura napoleonica, che cosa ci ritroviamo davanti? La nefasta corrente liberale, pronta nella sua pretesa e nella sua supponenza, a dare lezioni nientemeno che di “libertà”, come pretendeva il Croce, libertà della quale peraltro o nulla, o ben poco sapevano. Della libertà avevamo già trattato ampiamente altrove, e ci dispiace ancora di doverci citare, a dispetto della nostra modestia, E ci dispiace anche molto di doverci in questa sede avvalere di un termine trito e ritrito, linguisticamente spurio, per giunta abusato quanto al significato ed al giudizio di valore.
Il termine oramai famigerato di “liberalismo”, e ci atteniamo quivi alla originale notazione ellenica della sua terminazione, potrà avere due significati, e quello di una propensione verso la libertà, non certo la libertà stessa, lo si noti bene, oppure anche il significato, come avviene assai sovente ai nostri giorni in altri casi, anche ben noti, di una generalizzazione indebita di una qualche cosa. La quale si ridurrà in quel primo caso effettualmente ad un’indole accidentale apposita. Perché liberale potrà essere sì l’indole del libero, ma non certo il libero medesimo, nella sua natura propria, notando come l’indole potrebbe anche non corrispondere affatto a quella natura.
Liberale potrà essere anche uno schiavo il quale ti faccia dono di una cesta di fichi, senza che ci si venga a dire, che in un tale caso egli meriterebbe quella libertà, che egli non ha, oppure che neppure merita lontanamente d’avere. Il fatto sarà che un qualcosa di avventizio andrà a fare riferimento, nel suo significato, a delle circostanze transeunti, ad uno stato in definitiva transitorio, la qual cosa potrebbe non avere nulla a che vedere con una realtà di fatto la quale ne potrebbe costituire anche la negazione. Questo checché ne dica il Croce, nella supponenza e tracotanza dei suoi assunti, mirando a nobilitare un temine affatto privo, di per sé stesso, di una qualsivoglia nobiltà interna.
Liberale potrà essere, nella sua generosità, anche un servo, come dicevamo prima, pronto ad offrirti i suoi frutti, atto indubbiamente lodevole, il quale certamente lo onora, ma senza che debba negarne le propensioni e la natura servile. Liberale potrà essere un’acclusione anche ad un qualche cosa d’estraneo, che potrà anche qualificare limitatamente, siccome di chi manifesti una siffatta generosità solamente per accattivarsi la tua benevolenza. Non per nulla la libertà dei moderni si andrà a confondere, per falsificazione, con un’indole liberale, facendo accattare, come nella Roma della decadenza, o nell’Atene di Socrate, anche immeritatamente, il favore popolare.
Nulla di più scevro a nostro modesto avviso, da una qualsivoglia virtù superiore, da qualsiasi nobiltà che sia radicata nella trascendenza. Al limitare del modo moderno, ed ancora peggio dopo, i liberali saranno procacciatori di favori per calcolo, senza nessuna convinzione radicata. Già nella feudalità di origine germanica, si era venuta ad imporre una situazione abnorme, che attribuiva talora a personaggi del tutto privi di qualificazione, come il “ius dicens”, prerogative niente affatto loro, conculcando il Ius Maiorum come l’avevano inteso gli antichi. Privilegi che l’ignoranza del Nievo contrapponeva alla pretesa “barbarie” di un Islam, che era loro affatto superiore.
Già il latifondo, sovente di origine plebea, così come avvenne specialmente dopo l’invasione piemontese e massonica dell’Italia, aveva sostituito la modestia d’origine di patrizi insigni come Cincinnato, fino a mettere in mano ad indegni, i quali venivano dopo quei “timocrati” che Platone ravvisava negli spartani, figuri indegni sì, ma tutti tronfi e gonfi di beni e di titoli, più che di qualificazioni trascendenti, o sapienziali, o guerriere, proprietà immense quali non si era viste in precedenza. Ma purtuttavia si conservava ancora un qualche riferimento liminale a quelle che erano state le virtù originali, cioè le virtù di quelli che erano stati i detentori del Mos Maiorum.
Ma ora i liberali, padroni di tutti e di tutto, a dispetto dell’abrogazione di una servitù oramai priva di senso, perché tutti tendevano a ridursi a servi, s’arrogavano virtù non loro, continuando l’usurpazione dei beni materiali, aggiungendone altri a quelli precedenti, in tutta mancanza di qualificazioni che non fossero minime. Come avvenne nell’Italia liberale e plebea, specie del Sud, all’indomani dell’invasione prevaricatrice fatta passare per “unità”, e dell’usurpazione dei beni sacerdotali, che erano stati invece messi al servizio del popolo. Dicevamo che questa liberalità ingannevole, sotto la specie di liberalismo pubblico, s’impone all’Europa post rivoluzionaria, a farla da padrona.
E la sua prima pretesa sarà quella costituzionale. Ora qui bisogna procedere con estrema prudenza, ed intendersi bene, a scanso di equivoci. Lo stato costituzionale non è necessariamente un male, anzi potrà essere un grande bene. Ma sarà da vedere attentamente a quale legge questa costituzione si debba ispirare. Basti osservare che nell’Iran dei Qajar, anche se si tratta di un mondo alquanto lontano dalla nostra temperie culturale, l’insurrezione costituzionale contro un potere assoluto oramai degradato e debilitato verrà intesa come qualcosa di tutt’altro che disprezzabile, e questo a cominciare da quelli che continuavano ad esservi i depositari della legge, e della sapienza, e dell’autorità sacra.
Soltanto che la cosa subì, per l’intromissione malevola degli occidentali, una deviazione completa. Dal momento che quella legge, la quale avrebbe dovuto essere in definitiva quella medesima legge divina alla quale Platone consigliava Dionisio di Siracusa di sottomettersi per ben governare, dovuta al successivo indebolirsi anche intellettuale di un potere sovrano incapace di tenere in mano la situazione se non con la violenza e l’arbitrio, tutto questo a prescindere da quella che era stata l’ispirazione trascendente, almeno parziale, dei sovrani precedenti, non fu certo la legge divina, ma s’ispirò invece a quella modernizzata e secolarizzata di francesi e di belgi nientemeno.
Operazione genuinamente modernizzatrice questa, anche se fallita a lungo andare. Ma in Inghilterra il venire meno dell’ispirazione della consacrazione sottesa al potere assoluto, dopo aver dato luogo a quello che fu forse in Europa con continuità il primo potere secolare arbitrario, non venne sostituito da nessuna regola, ed il Re rimase lì a farla da manutengolo ai banchieri giudei e massoni ed alle classi profittatrici, pur conservando in definitiva poteri assoluti che neppure il parlamento poteva scalfire. In Italia, e nel resto d’Europa, i movimenti costituzionali ebbero, in ogni caso, un andamento prettamente modernizzatore e sovvertitore, atto a farla finita, una volta per tutte con quella legittimità della quale avevamo già detto in precedenza.
Nulla dunque che potesse richiamare, per quanto fosse umanamente possibile, o per volontà ispirata, a quella legge sacra originale foriera di legittimità, ma solamente tutta una serie di petizioni di principio e di ripetizioni ovvie atte, a loro avviso, a liberare l’uomo o meglio, la parte più privilegiata dell’uomo, come nel caso della Magna Carta, o quella infima, nel nome di pretesi diritti, con un senso simile a quello dell’assenza di legge inglese. In effetti l’indole liberale, annessa ad una sostanza indifferente, anche servile, non faceva se non stabilire tutta quanta una serie d’equivalenze fittizie, non certo una natura propria atta ad un itinerario trascendente.
Laonde le costituzioni le quali la corroboravano, non facevano se non sancirne il vizio d’origine, vale a dire, l’assenza, o meglio, la pretesa assenza di qualificazioni. Libertà d’associazione, come sottolineava con compiacimento il Mazzini nel caso del Piemonte prevaricatore. Ma quali associazioni? Massoneria, carbonari, partititi secolari vari, già liberi per loro natura, non in un senso indifferente, ma nell’ambito di un orientamento alla trascendenza cui fossero subordinati. Libertà delle comunità di amministrare i beni pubblici, l’acqua, la terra, i boschi, come avveniva per i beni sacerdotali, usurpati dall’invasione framassonica, che davano alla popolazione indigente il diritto di pascolo e legnatico, o in generale d’uso, come per l’acqua demaniale.
Nulla di tutto, ma invece una legge prevaricatrice positiva e giacobina, che garantisse i beni usurpati dai profittatori framassoni liberali. Non una legge di natura oppure ispirata, ma una costruzione individuale e perversa, tutta a danno della comunità degli avi e della personalità volta alla trascendenza. Il partito moderno, nella sua positività, tutto umano e secolare, a danno di quelle che erano le prerogative di natura ispirate dall’annunzio divino, effettuali e trascendenti. Il tutto in una velleitaria separazione da Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, a vantaggio di avventurieri, profittatori, nobili degenerati, sarti e ciabattini, soprappostisi alle antiche nobiltà guerriere e di toga, al ceto produttivo, alla schietta classe sacerdotale e ad un popolo ancora sano.
Nulla peraltro che stabilisse una qualche qualificazione, non certo limitativa, com’è quella dell’individuo in tutta la sua astrazione, ma invece morale ed ascendente, che stabilisse e formasse, come sarà invece nel caso della persona, della comunità genuina in generale, e delle persone spirituali, dei loro enti, e di una legittimità sia pur ridotta, ma che riportava pur sempre le sue origini al Mos Maiorum. Esaltato peraltro anche dalla religione, come stabiliva quel doppio diritto, del quale gli antichi sacerdoti esperti Utriusque Iuris, civile e religioso, rivendicavano la loro competenza, al di là degli abusi feudali sopravvenuti, ma che non avevano conculcato del tutto l’insieme della struttura.
Nel primo caso il più delle volte, nessun costituirsi positivo, com’è invece per l’Iran contemporaneo, nessuna costituzione scritta, come nel caso di Platone e di Dionisio, a dispetto del fatto che quest’ultimo stabilirsi fosse tutt’altro che da rigettare. Mentre nel secondo caso, uno statuirsi positivo, codificato che esso fosse, o no, come nel caso dell’Inghilterra, che andasse a stabilire una positività secolare generale, del tutto astratta dalla concordanza trascendente dell’uomo qualificato. Una libertà non più intesa come estrinsecazione di qualità, ma del tutto indefinita, come pretendeva il Croce a stabilirne l’origine inconsistente dalla materia prima, sempre nella privazione di ogni qualità.
In Italia le prime agitazioni in tal senso si ebbero, con apparente stranezza, in uno dei luoghi che si sarebbe potuto reputare dei più avulsi da tutto questo, vale a dire il Regno delle Due Sicilie, protetto dall’acqua salata e dall’acqua santa, com’ebbe a dire uno dei suoi Sovrani. Imposta la costituzione nel più completo disprezzo di un popolo che si voleva abbrutire nella servitù framassonica, il Sovrano seppe reagire alla costrizione, con l’appoggio della potenza legittima asburgica, non straniera, e con la partecipazione ardente del popolo napoletano, che promosse ed accolse con fervore e contentezza la restaurazione del suo Re, falsamente bollato di tradimento dai liberali fedifraghi.
In assenza di una costituzione ascendente realizzatrice, i soldati degli Asburgo vennero accolti in festa dal Popolo napoletano, da liberatori, dopo quella che era stata la mala parata delle milizie liberali a Rieti, fuggite senza combattere, ad onta della loro tracotanza, ed il parlamento, quello dei framassoni liberali profittatori, traditori questi sì della patria e della fede, veniva congedato a furor di popolo. Il Regno delle due Sicilie, già sopravvissuto a precedenti invasioni ed usurpazioni, era per il momento salvo, anche se ancora lo attendevano terribili prove, ed un esito finale tremendo, comune del resto a tutta la rimanente parte di quest’Italia sventurata.
Anche se mancò purtroppo, come manca a maggior ragione tuttora, una costituzione positiva che rinunziasse ad un potere assoluto sì, ma a suo modo ancora legittimo, il quale andava subordinato, per esser corroborato ed esaltato, ed ancora ricordiamo qui l’esempio della lettera di Platone a Dionisio di Siracusa, ad una superiore legittimità, vale a dire, alla trascendenza divina, compito assai difficile date le presenti condizioni, data la mancanza, dopo l’innesto paolino quanto al Mos Maiorum, di un ravvisarsi unitario e perspicuo dell’irradiazione divina. Pecche che peraltro lo sventurato popolo delle Due Sicilie così come dell’intera Italia, dovrà alla fine pagare a caro prezzo.
Quindi il nord ovest, il Piemonte. Dove un’antica famiglia di cavalieri, di combattenti, dopo il suo coinvolgimento nelle guerre europee che l’avevano in un primo tempo travolta, aveva ricostituito il suo piccolo stato sotto la conduzione di Emanuele Filiberto, valoroso capitano, e valente governante, che l’aveva anche italianizzato, portandone il centro al di qua delle Alpi. Fatto sta che, dopo di lui, allettati dalla prospettiva di ampliare il proprio dominio a danno dei deboli staterelli del nord ovest d’Italia, costoro si lasciarono andare, a procedere da Carlo Emanuele, pur esaltato dagli ante liberali di quel tempo, ce n’erano pure allora, come il Tassoni, a tutta una serie d’avventure e di tradimenti.
“Se un Savoia finisce una guerra con lo stesso alleato con il quale l’ha incominciata, segno che ha tradito due volte”, recita un vecchio e celebre detto. Fatto sta che l’antica nobiltà guerriera del Conte Verde e del Conte Rosso andò a farsi benedire, ma lo staterello transalpino savoiardo, illustrato dalle sue propaggini italiane, andò sempre più ampliandosi, sino ad assurgere al titolo regale di Sicilia nientemeno, ma solo per pochi anni sostituito presto da quello, più modesto, di Sardegna, del quale d’allora in poi costoro sempre si fregiarono, sino all’invasione framassonica ed alla pretesa “unità” d’Italia, con il conseguente titolo regale usurpato, il loro vecchio sogno.
Nondimeno permanevano pur sempre quelle antiche radici di legittimità delle quali avevamo detto sopra, sicché il Piemonte, dal nome della sua provincia principale, o Savoia, dal dominio originale, o Sardegna, dal titolo regale, si distingue nella giusta lotta contro l’aberrazione inumana dei seguaci del rinnegato ed oppressore Calvino, esaltato nondimeno dal Croce come campione della libertà nientemeno, che libertà! Questo a dispetto delle sue propensioni per i Savoia liberali. Il che avvenne già con Carlo Emanuele a dire il vero. Sempre con il rigore di leggi che continuavano ad ispirarsi alla legittimità dello Ius Maiorum, tanto che al tempo della Rivoluzione francese il Piemonte fu una delle roccaforti conto la prevaricazione e l’usurpazione giacobina.
Travolto dall’ingegno militare napoleonico, venne ricostituito con la restaurazione, in nome della legittimità tradizionale, ed ingrandito con la preziosa preda di Genova. tanto ambita. Sarà dopo che incominceranno le magagne. La restaurazione aveva trascurato quell’elemento popolare che era stato uno dei suoi fondamenti, andando così ad impelagarsi in una serie di decisioni prese dall’alto, che per quanto imposte, erano per lo più gradite all’elemento popolare ed alla nobiltà tradizionale. In Piemonte un Re valoroso, Carlo Felice, che aveva conservato gli elementi dello spirito antico, dovette lasciare il posto, estintasi la sua discendenza, alla linea dei Savoia Carignano.
Carlo Alberto di Savoia Carignano doveva essere il suo successore. Costui aveva, durante un’assenza temporanea del Sovrano, concesso a quei militari ribelli infrancesati e già napoleonici, di tendenze affatto liberali e nazionali, che costituivano il nerbo delle forze armate, come a Napoli, una costituzione liberale la quale, sempre come a Napoli, sfigurava l’antica regalità. Qui non ci sarà bisogno di un intervento apparentemente esterno e straniero. Iniziativa questa affatto legittima, checché ne potrebbe dire un Tommaseo. Carlo Felice sconfesserà il congiunto, e ristabilirà, da perfetto galantuomo, la situazione. Ma non lo escluderà, forse non potrà, per ragioni di continuità familiare, dalla successione.
Carlo Alberto di Savoia Carignano, successore di Carlo Felice di Savoia, educato in Francia al tempo della Rivoluzione, ed a Ginevra dai seguaci di Calvino, e non c’è bisogno di chiarire a che cosa fosse stato educato, non rinunziava alle sue propensioni liberali e nazionali, contrarie agli Asburgo, quantunque lo facesse all’inizio da simulatore, con la prudenza dell’opportunista. Tanto che nel 1848 sarà l’ultimo dei Sovrani italiani a concedere una carta costituzionale liberale, il celebra Statuto Albertino, che diverrà la carta del successivamente costituto Regno d’Italia, frutto dell’annessione al Piemonte, per il tramite della vergognosa truffa dei pretesi plebisciti.
Sconfitto alfine dagli austriaci a Novara, dopo l’avventura della guerra del 1948, e costretto all’esilio, cederà il regno a suo figlio, Vittorio Emanuele II, presumibilmente putativo, il “figlio del macellaio”, che avrebbe sostituito, come sostengono alcuni studiosi, il legittimo erede morto nella sua culla in un incendio del palazzo reale. Personaggio quest’ultimo rozzo, e volgare, e ignorante, e violento, al quale gli austriaci, in tutta infelice ingenuità, avevano commesso l’errore di consentire di mantenere in vita la costituzione liberale del padre, foriera di molte delle successive sventure d’Italia. Ma la situazione in Piemonte era nel frattempo completamente cambiata, a differenza che a Napoli.
Non abbiamo qui notizie su come ciò poté avvenire. Fatto sta che la vecchia classe dirigente, messi da parte uomini come Solaro della Margarita, ed ignorati i moniti di Don Bosco, era stata sostituita da un manipolo di avventurieri senza scrupoli, nobilucci di nobiltà degenerata, com’era stato del resto in precedenza anche a Napoli, primo fra tutti il Conte infernale, Camillo Benso di Cavour, pronti a giocare qualsiasi carta, principalmente con la simulazione, pronti a farsela con ogni tradimento, pronti ad impelagarsi in qualsiasi guerra, pur di portare a realizzazione il loro vecchio sogno perverso, il sogno di un’Italia liberale, non libera, si noto bene, e framassonica.
E non stiamo qui ad enumerare minutamente tutta la serie dei tradimenti, degli inganni, delle trappole, dei sotterfugi usati contro l’Austria, contro lo Stato Pontificio, il Regno delle Due Sicilie, ed i rimanenti stati italiani, messe tutte in atto dal Conte infernale, in combutta con l’immondo regolo savoiardo, forse il figlio del macellaio, volgare e prevaricatore, a dispetto dalle lodi servili che a questi due figuri esecrandi vennero largite in seguito dagli autori della corrente liberale, vedi Benetto Croce, traditore del suo stesso popolo dell’Italia del Sud. Orrori e tradimenti i quali verranno sempre fatti passare, con una falsificazione memoranda, per sublimi atti meritori e di valore, da conservare perennemente negli annali della memoria della posterità.
Napoleone III si fece ingannare dal Conte infero, creandosi al fianco, con piccoli guadagni, un serpente che non gli sarebbe stato di aiuto nel tempo nel bisogno estremo, ad onta dei buoni consigli a difesa del Pontefice Romano della sua buona e pia Imperatrice. L’Inghilterra, empia e prevaricatrice, artefice o complice di ogni tradimento ed inganno, veniva premiata, saldamente installata nel centro ed ai margini del Mediterraneo, vanificando quella realtà la quale in definitiva si ricollegava all’Impero Romano, realtà che richiedeva semmai un ben diverso aggiustamento delle cose, a difesa dei diritti di legittimità, e contro ogni prevaricazione, senza nessuna avventura debilitante in tal senso.
Quindi le infelici ed ingloriose avventure africane, a dispetto di una miseria interna intollerabile, portata all’estremo dalle usurpazioni dei prevaricatori massonici, sulla scia di un’Inghilterra dominatrice, dove un quinto della popolazione, lo confessa lo stesso Mazzini, viveva di mendicità, a dispetto delle immense ricchezze trafugatevi derubando ed affamando, e dell’oro giudaico per giunta, con cui i signorotti ed i banchieri inglesi si permettevano di armare gli eserciti propri, quelli coloniali, e soprattutto l’enorme flotta, che consentiva di espandere il loro dominio ad un quarto delle terre emerse, e ad un quinto della popolazione mondiale, ridotta ad una miseria indicibile.
Il vecchio sogno di una struttura pubblica comprensiva, la quale si richiamasse alla legittimità del Mos Maiorum, assicurando visibilità e dignità alle moltitudini urbane e rurali, falliva sotto l’urto dell’oro inglese, o meglio, dell’oro giudaico, e del reticolo framassonico, con i tradimenti a loro legati. In definitiva, una nazione di quart’ordine l’Italia, a dispetto delle sue roboanti pretese, strutturalmente debole e malaticcia. Il tradimento della Prima Guerra Mondiale nulla dava, a dispetto dell’inaspettata vittoria sul campo di battaglia, una vittoria fasulla, in definitiva massonica, propiziata dalle agitazioni e dalle defezioni dei popoli dell’Impero austro ungarico, specialmente gli slavi.
Popoli che non si rendevano per nulla conto, accecati dal fumo delle nazionalità, a quale privilegio avessero dato un calcio sonoro. Quella vittoria non faceva se non aggravare la situazione, una vittoria mutilata dalla prevaricazione coloniale franco inglese, la cui alleanza era invece esaltata dal Croce come fautrice di non si sa quale “libertà”, il che peraltro avrebbe potuto portare l’Italia a rinunziare a qualcosa, l’empia colonizzazione, da cui sarebbe stato un dono trarsi fuori, seguendo l’esempio proprio del vituperato Impero Austro Ungarico, in seguito rimpianto persino dal diavolo, porco e cane, dal fumatore alcolizzato Churchill, che Iddio lo maledica e lo sprofondi.
In definitiva venivano al pettine tutti i nodi di quella mancanza di orientamento trascendente, che avevamo in precedenza tentato di descrivere con una qualche minuzia. Mancanza di orientamento che coinvolgeva l’intera Europa, un’Europa suicidatasi nella materia, che dal basso di questo suicidio infero si era gettata sugli altri popoli, che pure all’inizio erano superiori anche sotto il profilo dell’effettualità mondana, ma che furono, in ragione più che della permanente subordinazione alla trascendenza, per via di quell’affievolirsi, di cui sopra, del loro afflato trascendente, travolti dalle cannoniere degli affamatori francesi ed inglesi, elargitori di libertà nientemeno, come pretendevano il Croce ed il Nievo, della libertà dei cadaveri.
I quali inglesi e francesi, ed anche con loro olandesi e belgi, estromessi spagnoli e portoghesi, per via del loro difetto di giudaizzazione, che li aveva privati dell’oro giudaico, si davano, specialmente nell’Asia, ad attaccare gli indiani, le loro prime e più durature vittime, e poi cinesi, e giapponesi, e turchi, e persiani, messi in gravi difficoltà sia dal quel progressivo indebolimento di cui si era già detto prima, sia anche d’altra parte, causa od effetto che fosse, dalla progressiva solidificazione del mondo, così come bene osserva Julius Evola, il quale andava sprofondando verso la materia prima, chiudendo la via, in questo suo precipitare, a tutti quei rimedi, a tutte quelle difese le quali venissero dal manifestarsi effettuale della conoscenza trascendente.
Vi furono vari disperati tentativi, come in India quelli dei Rajput, in Giappone degli ultimi samurai, di combattere contro cannoni e mitragliatrici, armi moderne ed infernali, con quelle stesse armi che avevano espresso l’anelito alla trascendenza. A dispetto dell’ardore e del valore di un popolo come quello persiano che, guidato dai suoi capi spirituali, prendeva l’iniziativa contro la prevaricazione britannica, e russa allora, venendo preso alle spalle dai traditori interni, vecchia vicenda questa, che non riusciranno, in ragione del radicamento nella suddetta personalità reale del Vaticinio, ad estirpare quelle radici trascendenti che si sarebbero fatte valere provvidenzialmente in seguito, in uno dei frangenti più terribili delle vicende umane.
Ma dicevamo che l’Italia, mutilata dalla prevaricazione anglo francese dell’indebito bottino coloniale, affamata e divisa, ulteriormente impoverita dalla guerra sanguinosissima, in preda a vere a proprie bande armate del terrore, i famigerati Arditi del Popolo, i quali tentavano, ispirandosi al cattivo esempio russo, di risolvere in un modo indebito ed avventuroso una questione sociale, pur sempre conseguenza di una realtà di fatto di oppressione, ed usurpazione, e sfruttamento feroce, si lasciò andare ad un conato di rivincita ambigua e contraddittoria con il celebre movimento dei Fasci di Combattimento. Fu questo un tentativo destinato alla fine a fallire, per tutta una serie d’irrimediabili difetti d’origine che ne tarpavano del tutto le ali.
Il fondatore Benito Mussolini, già valente giornalista, direttore nientemeno che del giornale del partito socialista l’“Avanti”, certamente in combutta nascosta con i servizi segreti francesi, e con la framassoneria internazionale, si lasciò trascinare dal sogno malefico dell’intervento bellico. Ma non come sarebbe stato corretto, vale a dire, al fianco dell’Austria e della Germania, come osserva giustamente Evola, con le quali l’Italia, lasciando per il momento da parte il suo vecchio nume ispiratore framassonico e liberale, aveva deciso di allearsi temporaneamente, ma proprio dalla parte di quegli ingannevoli simulacri aberranti, in definitiva i suoi schietti nemici giurati, i quali l’avevano alla fine richiamata all’ordine, e l’avevano gettata nella mischia.
A queste realtà affatto malefiche ed ingannatrici, in mancanza di certe premesse e considerazioni, vale a dire, in definitiva, in mancanza di conoscenza superna reale e realizzatrice, e senza l’ausilio e l’iniziativa diretta della trascendenza divina, non sarà possibile, in particolare nelle presenti condizioni, così come possiamo testimoniare tutt’oggi, ribellarsi e sottrarsi. L’Italia si lasciò dunque andare all’avventura terribile della guerra mondiale, per due città, più una terza non italiana, ma germanica, ostile all’Italia, a dispetto di quella che sarebbe stata la rivendicazione nazionale, in seguito patrocinata degli statunitensi simulatori, città da aggiungersi alla corona del Regolo savoiardo, del piccolo Re traditore, subendo perdite umane e materiali indicibili.
Mussolini fa da manutengolo del colpo di stato del Regolo savoiardo traditore, assieme al “Vate” guerrafondaio D’Annunzio, che sommosse le plebi, guarda caso, con un discorso in memoria delle poco edificanti imprese dell’avventuriero, bandito e pirata Giuseppe Garibaldi, contro l’opposizione del Pontefice Romano e dei partiti di sinistra. Dopo di che, in nome di un ordine fasullo, ed ingannevole, ed avventizio, in definitiva illegittimo, andò a proteggerlo, coi privilegi liberal massonici, dalla sollevazione della sinistra armata, e non armata, la quale aveva messo le mani sul movimento popolare, tanto da ricevere alla fine, per i meriti così acquisiti, dalle mani stesse del piccolo Regolo savoiardo traditore, la nomina a Primo Ministro del Regno d’Italia.
Ma qui avviene qualcosa di assolutamente inaspettato. Evola ci viene a dire acutamente, ma con un brutto termine di notazione sospetta, di “eterogenesi dei fini”, vale dire, d’inversione dei fini. Perché le cose incominciarono ad andare in un tutt’altro verso. Il nuovo movimento, ferocemente avversato da parte liberale con accuse il più delle volte calunniatrici e fasulle, incominciò ad adoperarsi per il bene, non solamente materiale, di quelle stesse moltitudini popolari, le quali avevano versato, in tutta buona fede, il loro sangue per una patria in definitiva fittizia ed inesistente, mero frutto del vuoto dell’oratoria liberale e massonica. Come dimostra l’ancora esistente opposizione inveterata tra Nord, e Sud, frutto della conquista a mano armata, del conseguente saccheggio, delle stupide prevenzioni liberali, e di un’ignoranza certo meno che plebea.
Iniziative varie, quasi sempre positive e rimarchevoli, ma che non varranno a conciliargli l’inconciliabile, vale a dire, da una parte il favore dei seguaci giudaizzanti di Mardocheo, alias Carlo Marx, fatto salvo il caso nobile, seppure al termine di tutta la vicenda, di uno dei padri fondatori del Partito Comunista, Matteo Bombacci, trucidato alla fine, e con Mussolini appeso ed esposto al ludibrio della feccia del popolo dai sedicenti “liberatori”. Dall’altro a fargli conquistare la lealtà, peraltro in loro del tutto inesistente, se non per i loro padroni francesi ed inglesi, dei gruppi dominanti liberali e framassoni. Questi in effetti, del tutto frastornati dalle iniziative popolari del nuovo governo, verranno poi colpiti al cuore prima dalle leggi inaspettate contro la Framassoneria, ed in seguito da quelle “razziali”, contro giudei e giudaizzati.
Leggi queste ultime, come osservava giustamente Julius Evola, che restarono in definitiva del tutto inefficaci, perché era da definirsene in primo luogo il piano d’azione, il livello, trascendente in senso infero, il quale ben poco aveva a che fare con la loro diffusione banale tra medici, ed ingegneri, ed avvocati, ed uomini d’affari, se non tra i banchieri E ci permettiamo di aggiungere noi, avendo costoro da riportare la loro radice ad un ritorno alla dottrina di Mosè, alla Torà da lui promulgata per decreto divino, il quale la facesse finita con le tutte le empie inversioni ed invenzioni talmudiche, così come con la stregoneria venefica dei malefici cabalistici. Il medesimo discorso valendo in definitiva pure per la Framassoneria, anche se non per la corrente liberale.
Facendola finita una volta per tutte con quella secolarizzazione immonda e distruttrice, contrapposta alla religiosità genuina, la quale aveva fatto del mondo giudaico, staccato dalla sua tradizione originaria, dopo la predicazione di Gesù, la pace su di lui, da Marx, a Freud, ad Einstein, per citare alcuni dei nomi più noti e popolari, una sentina di nefandezze non solamente contro lo Ius Maiorum dei popoli d’Occidente, ma contro la stessa legge mosaica. Si trattava di distinguere oculatamente dunque, non certo di confondere. Senza lasciarsi andare a stupide, ed inutili, ed ingiuste, e controproducenti persecuzioni. Come fu del resto anche per la questione allora cruciale della razza, questione esemplificata magistralmente da Julius Evola.
La quale razza andava intesa, a prescindere da un’inesistente razza corporea giudaica, nel verso di Platone e della sua Politeia, nel senso di promuovere un orientamento sapienziale trascendete di combattenti e di sapienti, orientamento e conseguimento che avessero delle ricadute anche nel verso ed al livello del sembiante sensibile, trascurando inessenziali imbastardimenti, i quali peraltro già esistevano anche per svedesi, e norvegesi, e danesi, ed olandesi, ed islandesi, a dispetto di colore e di statura, senza lasciarsene allettare ed ingannare dal sembiante insulso. O anche sulla scorta della premonizione ispirata di Campanella, che aveva fatto dei suoi solari dei sapienti nel senso della sapienza trascendente, eminenti anche sotto il riguardo della loro corporeità, com’era stato prima di lui anche per Socrate e per Platone.
Non richiamandosi, a questo riguardo, alle confuse profferte materializzatici della barbarie nordica, vale a dire, ad una razza meramente corporea, antica o nuova che essa fosse. Alle cui pretese, peraltro così come a quelle italiane a loro malamente e pedissequamente ispirate, doveva succedere nel dopoguerra il fallimento più clamoroso, con la passività lunare nordica ridotta a serva dei servi dei servi di Giuda, Giuda Iscariota per inciso, non Taddeo o Maccabeo, vale a dire di anglosassoni e giudei, assurti al rango di dominatori del mondo. Essendo la cosa perspicua per i popoli scandinavi, che tutti quanti sappiamo a che cosa si siano ridotti, anche prima della guerra mondiale.
La razza, già preconizzata precedentemente alla prima guerra mondiale, aveva avuto in parte addentellati giudaizzanti, si vedano ad esempio gli anglo-israeliti, o Giudei come Kalergi e Carpivi, desinata a produrre un gruppo dirigente di giudei e giudaizzati. Che avrebbero dovuto, od almeno, si sarebbero sforzati in un tal senso, dominare un mondo destinato a squallido laboratorio per le cavie di una servitù generalizzata ed indotta, com’è che sta purtroppo avvenendo ai nostri giorni. Rendendoci conto del fatto, che ai nostri giorni si sono sviluppati a dismisura certi strumenti e procedimenti perversi, utilizzabili ad un tal fine, sull’onda degli abusi della ricchezza cartacea.
A tutto questo avveniva finivano con l’aderire quegli errori, lo ripetiamo, che il governo del Fascio Littorio si adoperava per propalare, senza avvedersi di lavorare in questo a pro di quei pretesi e presunti dominatori del mondo, giudei ed anglosassoni, ai quali nel dopo guerra ci si sarebbe dovuti aggregare. Il tutto per via di elucubrazioni immaginarie su di un mondo che non era mai esistito, se non nella selvaggia regressione di popoli non risparmiati da quei disastri antichissimi, di cui dice Platone nel Timeo, ai quali altri invece più a sud, lungi dalle sedi nordiche, si erano invece sottratti. Errore dal quale non fu del tutto esente neppure un grande come Julius Evola.
Tant’è che ai nostri giorni, nello sforzo di demolire il mos maiorum originario, sopravvissuto alla temperie dei tempi, in un delirio di “cancellazione culturale”, quei mondi liminali, com’è buffonescamente per i celti di “Asterix”, vengono esaltati, a procedere dalla loro propaggine anglosassone ultima, a danno dei vituperatissimi romani, cui si ama attribuire ogni nefandezza. In Italia vi fu peraltro un tentativo di richiamarsi alla romanità, a quella antica, ed a quella pontificia, ma senza comprendere che la prima, sul lato del potere temporale, era oramai definitivamente tramontata, anche in ragione dei misfatti di italiani e savoiardi prima e dopo la guerra mondiale.
Mentre la seconda, in queste condizioni, sopravviveva a sé stessa, affatto lodevolmente sì, ma in un completo e sdegnoso isolamento, incapace d’incidere sul corpo vivo della società, a dispetto del sopravvivere di certi tesori spirituali, assai debilitati, a differenza dell’Oriente ultimo, mancandone i presupposti, in ragione del misfatto suddetto della prevaricazione paolina. Dando pertanto luogo ad un innesto tra una petizione di principio affatto immaginaria, ed un qualcosa, che venutine meno gli ultimi addentellati effettuali, si limitava ad un’opposizione nel complesso inefficace, nel senso della sua estenuazione, e del potere dell’effettualità avversa.
Peraltro gli errori di tutta quest’esperienza, quantunque parzialmente rettificatrice, o del suo tentativo in un tal senso, saranno terribili. La regalità fallace dei regoli traditori savoiardi, in primo luogo del piccolo Re traditore, vessilliferi della prevaricazione massonica risorgimentale, mantenuta al potere, si sarebbe alla fine una seconda volta fatta richiamare all’ordine dai suoi padroni, vale a dire, ad un secondo odioso tradimento. Con tutto l’apparato di tromboni e grancasse risorgimentali, che si portò dietro di sana pianta, con tanto di Mazzini e di Garibaldi, oltre allo squallido apparato della corte savoiarda, esaltata anch’essa sconciamente nelle leggende perverse della santificazione ufficiale.
Tanto che il primo dei due, il pazzo di Genova, entra a fare parte con tutti gli onori di un movimento il quale con lui non avrebbe a rigore dovuto avere nulla a che vedere, con la sua immaginaria, del tutto inesistente volontà popolare, la stessa immaginazione del Tommaseo, e della cristianità protestante del Sarpi, anch’essa immaginaria, del tutto nemica legittimo del potere trascendente di diritto divino, dell’autorità di un potere fondato sulla trascendenza del mos maiorum, che era e sarà il solo, così come già dicevamo anche già in precedenza, che potesse opporsi agli orrori delle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità sventurata, conculcata e subornata.
Il secondo, bandito e pirata e traditore, avventuriero ladro di cavalli con le orecchie mozzate a suo perenne ludibrio, l’“infame Caripalda” con la casacca di macellaio bollato dagli austriaci, sempre sconfitto quando dovrà combattere per davvero, a dispetto di tutte le leggende santificatrici su di lui propalate dalla propaganda liberale e framassonica, ce lo ritroveremo ad ispirare con il suo nome le bande partigiane comuniste alla fine della tremenda vicenda della seconda guerra mondiale, vale a dire, durante la guerra civile italiana. Mentre il primo sarà per parte sua, nel dopo guerra, l’ispiratore di un movimento pubblico volto ad esaltare la dominazione mondiale del potere militare anglosassone, e di quello finanziario delle banche giudaiche.
Per di più l’avventura coloniale, inutile e deleteria, la quale valse ad immobilizzare oltre mare, senza averne il dominio, durante la seconda guerra mondiale, forze preziose nel momento del maggior bisogno. Con un perenne marchio d’infamia, l’impiccagione di Mukhtar, da parte di quello che sarebbe stato poi nientemeno che il comandante in capo delle forze amate della Repubblica Sociale Italiana, vale a dire, Rodolfo Graziani. Tutto questo pure con due correzioni rimarchevoli, in primo luogo l’ammissione dei locali libici alla cittadinanza italiana, della quale cittadinanza certo costoro non sapevano che cosa farsene, ma trattandosi in ogni caso un provvedimento lodevole.
E per di più, l’enunciato di uno dei punti di Verona del 1943, anche se quando oramai la situazione bellica andava precipitando verso il suo esito fatale predestinato, a lode dei rapporti con pari dignità con i popoli extraeuropei, oggi diremmo il terzo mondo, ed in primo luogo con quelli musulmani. La qual cosa sembrava che dovesse preconizzare la fine delle avventure, dell’usurpazione e dell’oppressione coloniale, di ogni forma di colonizzazione, aggiungiamo noi, in pieno accordo con quel punto, a nostro avviso, in primo luogo di quella pubblica e finanziaria, la più odiosa, così come sarebbe stato invece per lo più nel dopo guerra da parte anglo giudaica.
La socializzazione, alquanto biasimata da Evola, fu peraltro a nostro avviso un evento luminoso. Malignamente riprovato da certuni, Evola ci dice di partecipazione alle spese. Ne conveniamo, ma a patto che la conduzione venga affidata in buona parte alle maestranze, con il potere di liberarsi di capi indegni ed incapaci, anche con una confisca eventuale dei loro beni. Tutto questo almeno nei casi di maggiore concentrazione. Provvedimenti che, invisi al grande capitale, vennero cancellati dalle bande partigiane comuniste, e dal governo prono al volere anglo giudaico alla fine della guerra, dopo che Benito Mussolini e Matteo Bombacci erano stati fucilati ed appesi.
Rimane il caso di Giovanni Gentile. Ispirandosi allo Hegel, del quale si diede a riformare la “dialettica”, disse di suo di un’assurda “autoctisi”, creazione di sé, del resto propugnata, anche se senza quel medesimo nome, dal suo avversario Croce, come il Barone di Munchausen, che pretendeva di salire sulla luna sollevandosi per il ciuffo. Ma il suo “attualismo”, a bene considerarlo, contiene qualcosa di ben diverso, contiene l’esigenza della trascendenza divina, e della sua produzione, che non potrà certo scaturire da nulla e dall’essere indeterminato, com’era per lo Hegel ed il Croce, tanto da dare luogo a definizioni positive, che nulla avessero a che fare con l’indeterminazione prima.
Il Croce al contrario, con la sua libertà indeterminata, pretesa assoluta, non faceva ancora se non asseverare quel postulato assurdo dello Hegel, che procede dal nulla per pervenire al nulla, per dirla più correttamente con l’Adorno, il giudeo della “dialettica negativa”. Tanto da fare della sua libertà, preteso trionfo dello spirito e della sua pretesa età, il luogo della confusione primordiale, nel quale da una sostanza padrona di tutto, ci si conduce, per difetto di definizione qualitativa, alla “notte in cui tutte le vacche sono nere”, ma per esclusione del degno, del valido, della perfezione nel verso della trascendenza divina, fino all’odierna libertà, vale a dire, ai diritti di criminali, baldracche e pervertiti, e degli oppressori giudei ed anglosassoni del mondo.
Laddove invece nello stesso Hegel, si addiveniva a qualcosa di definito, allo stato del Re di Prussia, frutto di un progresso immaginario, propugnato questo anche dal Croce, dato che da Iddio, sia magnificato ed esaltato, si avrà irradiazione rivelativa, e poi decadenza e poi ancora rivelazione, sino ad un esito che risolva nell’eminenza un processo complessivo regressivo, anche se non assolutamente, quanto alle singole rivelazioni. Nel Gentile nulla di tutto questo, ma lo statuirsi di un atto frutto della immaginaria creazione da sé, che del resto anche il Croce statuiva, ma con un esito opposto, che qui, nella sua definizione attuativa, non farà che preconizzare, seppure involontariamente, l’esito della trascendenza divina contro ogni limitazione hegeliana.
Assunto che il Gentile peraltro ebbe a testimoniare con il suo sacrificio personale, a costo della sua stessa vita. Fatto sta che il Gentile ebbe a dare all’Italia un’istruzione, forse la migliore dell’Occidente crepuscolare della decadenza, la quale culminava prima nel pensiero, e poi nella religione. Ad onta di alcune pecche, quali l’esposizione per partizioni temporali successive del pensiero, come del resto non sarà neppure nelle università, e l’assunto scientifico limitativo in senso moderno, per obiettare al quale forse non era ancora il tempo. Come succede del resto persino nell’odierna Repubblica Islamica dell’Iran, propugnacolo della Rivelazione, ad onta di tutte le sue premesse sapienziali.
Fatto sta che questa istruzione non doveva durare molti anni dopo il crollo, certo per imposizione dei vincitori. Noi eravamo ai nostri tempi appena all’inizio del suo nefasto succedaneo, che accosta dapprima un insieme indifferente, e disparato, ed incoerente di soggetti, sino ad una vicenda universitaria affatto degradata, che dava il passo alla preminenza assurda di specialisti, i famigerati “tecnici”, a digiuno di cultura, e soprattutto d’intellezione, che prima non vi avrebbero avuto accesso, secondo la nostra stessa esperienza, a dispetto della nostra provenienza da quello che era stato in precedenza il fastigio degli studi classici, ai nostri giorni del tutto vilipeso e tenuto in non cale.
E poi la difesa della lingua. Forse un po’ troppo imposta, ma assolutamente necessaria, che in seguito lascerà il passo alla più indicibile degradazione. È con la lingua che, a cominciare dallo studio delle sue origini, nella fattispecie quelle latine ed elleniche, per l’Italia e per l’Europa occidentale tutta, si conserva lo spirito dei popoli, che muore senza di lei. Verrà poi l’“anglicizzazione” sventurata ed infelice, l’errore supremo, certo auspicato e voluto dai poteri giudaici d’oltreoceano, con tanto di giornalistucoli ignoranti manutengoli, residenti ed acculturati negli Stati Uniti d’America, imposta del resto in tutta Europa, anche alle nazioni che erano state le più orgogliose.
Sarà poi da osservarsi che l’indole sovente buffonesca dei Fasci di Combattimento, per un certo verso innata nel popolo italiano, messa in rilievo da Evola nel suo aspetto declamatorio da palco di recitazione anche per il D’Annunzio, non fece che propiziare il fallimento, con una mancanza di tenuta che aprì le porte alla propaganda nemica, devastante e pervasiva. Certo i più di venti anni non erano stati sufficienti a rettificare un’indole, che giammai, data anche la premessa della sua classe dirigente, sarebbe stata rettificabile umanamente, con tutti gli errori che vi si accumulavano ininterrottamente e perniciosamente, a dispetto dei lati buoni da noi sopra esposti.
In ogni caso, una guerra di produzione materiale, condotta da un lato che, sebbene non fosse certo il peggiore, era in definitiva sbagliato, senza nessun afflato trascendente e divino, a dispetto di certe ottime intuizioni contro l’oro, i giudei, la massoneria, questo riguardo non facendo se non propiziare la sconfitta. Ebbe ad osservarlo Evola, vale la pena ripeterlo ancora, i tempi non erano maturi, la solidificazione del mondo non lasciava presagire nulla di buono a breve scadenza. E soprattutto, come per gli antichi romani, mai attaccare se non attaccati, lasciamo questo a giudei ed anglosassoni, e per di più in condizioni disperate di materiale, di dislocazione spaziale, di tenuta morale.
Quello che doveva succedere successe, un crollo atto ad affossare un movimento sepolto in primo luogo dalle sue stesse pecche. Il dopoguerra portò un solo buon risultato, l’eliminazione dell’infausta sovranità usurpata ed usurpatrice dei regoli savoiardi traditori. Nulla di più. Una repubblica con una costituzione informe ed insulsa, ispirata da giudei ed anglosassoni, liberali e sinistre. Tutto il contrario della moralizzazione formatrice gentiliana, atta a dare forma, ed anche sostanza, con a sua premessa qualcosa che fosse volto, come auspicava la sua religione, fastigio di questa formazione, verso la trascendenza creatrice divina, l’unica atta a dare forma e sostanza.
Restavano i due movimenti popolari, quello di sinistra, principalmente il Partito Comunista, e quello che si rifaceva all’autorità di un Pontefice Romano genuino e non ancora degenerato da ogni sua valida prospettiva trascendente, la cosiddetta “Democrazia Cristiana. Radicato il primo, o almeno lo faceva credere, ed in parte anche attuava questa sua pretesa, nella difesa delle esigenze delle moltitudini oppresse e sfruttate, com’era stato anche per il meglio del governo precedente. La seconda con certe insufficienze strutturali, con la sua conversione democratica, a dispetto delle radici stesse del movimento, col suo nome assurdo limitativo, non definitivo della trascendenza, la quale conversione avrebbe dovuto essere a rigore solo di facciata.
Restando il secondo dei due movimenti del tutto scevro, o quasi, a parte innesti posteriori opportunisti e di facciata, da quelle due pulsioni regressive, quella del risorgimento, della quale avevamo già detto, e quella della partigianeria garibaldina, sua schietta continuatrice, specialmente nella sua componente minoritaria prettamente liberale, con tutte le sue pulsioni affatto contrarie alla religione, si veda a questo medesimo proposito la strage dei sacerdoti dell’Emilia, la quale s’innestò nella iattura della guerra civile italiana. Tutto questo a dispetto della successiva alleanza. Estraneità doppia che doveva conciliare a quel movimento il favore della gran parte della popolazione italiana, anch’essa per lo più del tutto avulsa da quelle propensioni.
Ma la decadenza e l’inversione ulteriori covano sotto le ceneri. Da una parte, una simulazione la quale era certo radicata nell’insufficienza di fondo della religione romana rispetto a quello che avrebbe dovuto esserne un correlato essenziale, lasciato del tutto a sé stesso, alle sue pulsioni, alle sue invenzioni perverse. Dal che una morale formale, niente affatto ispirata da un afflato esistenziale essenziale e sapienziale, una via di realizzazione nella quale si radicasse, com’era per Platone, la formazione virtuosa della società. Con una corruzione indicibile, che andava di pari passo con una conformità pedissequa alle pulsioni anglosassoni e giudaiche, con le loro propensioni mafiose, e framassoniche, contrariamente a quella che avrebbe dovuto esserne la natura.
Dall’altra parte invece, un vuoto completo di prospettive, dimenticati che furono i primi conati di ribellione, che doveva fare sì che, alla fine, l’orizzonte illusorio del miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici oppresse dovesse crollare miseramente su sé stesso, come avviene in questi casi, nell’assenza di ogni prospettiva di realizzazione trascendente e divina, tanto da ricadere, esauritisi i velleitari furori bellici della guerra civile, in quel destino regressivo che costoro avevano finto di combattere, senza poterne dare peraltro nessuna alternativa. Da qui il tradimento d’entrambi, previo compromesso. Da qui un’Italia prona ai dettami perversi di quella Nato, del Patto Atlantico guerrafondaio che si rifaceva alla Nuova Atlantide regressiva di Bacone, fondandosi su un patto arbitrario avulso dalla trascendenza.
Una nazione infelice, fagocitata dalla voragine regressiva infera dell’Unione Europea, col suo sogno fallace di ricchezza mondana largito ad arte a gonzi ed ingenui, anch’essa un’unione, non un’unità effusiva della trascendenza divina, sotto il tallone del potere spietato delle banche giudaiche, delle armi degli anglosassoni successori di Calvino, e dei poteri forti prevaricatori, senza nessuna indipendenza nazionale, per quello che di positivo questa possa avere, nel senso di una difesa almeno materiale. Senza nessuna morale, anche solamente sociale, com’era stato pure per l’Inghilterra vittoriana, ed in generale per i paesi protestanti, scevri, nella loro individualizzazione estrema, di ogni afflato nel senso dell’universalità della trascendenza divina.
Il disordine mondiale aggrava la situazione, rendendola sempre più irrimediabile umanamente, inducendo moltitudini crescenti di sventurati e d’illusi, vittime di aggressioni della Nato e dei suoi, e di conflitti interni aizzati ad arte, o di una fame voluta da altri, a lasciarsi andare ad un’avventura d’insussistente redenzione verso i lustrini ingannevoli e luccicanti dell’illusione tellurica d’Occidente. Tanto da tralignarvi indegnamente, a dispetto d’ogni loro precedente patrimonio materiale e spirituale, il più delle volte in una miseria indicibile ed insopportabile, il più delle volte nella più completa degradazione morale. Invece di costruirsi con orgoglio e fervore in patria i destini loro e delle loro nazioni, dandosi futuro e dignità.
Un’istruzione distrutta, nelle mani dell’ignoranza d’esperti atti a farla finita una volta per tutte con ogni intelligenza redentrice e realizzatrice. Cui s’aggiungono magagne schiettamente infernali quali il famigerato “genderismo”, a fare scempio dei giovani nella loro età più tenera, prima della scelta, auspicata od imposta, dell’inversione sessuale, con tanto di matrimonio immondo e figli usurpati. Un mondo, anche se non tutto, nelle mani di una banda ristretta di vecchi e nuovi ricchi, per lo più giudei od anglosassoni, volti a conseguire un dominio onnipervadente del genere umano, a farne un ammasso informe di servi, con qualificazioni infime o negative, nel verso della loro funzionalità nei confronti di chi li usa, ancora più informe di loro.
Donne sviate, fallite o fuori uso, direbbe Evola, baldracche e lesbiche, antifasciste ed acculturate, a fare da corona a quel dominio, e non possiamo neppure più dirla “pornocrazia”. Una divinizzazione della materia e delle bestie che tiene l’uomo in non cale, secondo l’auspicio di giovani ignoranti ed indottrinati, ben accolti alla corte dei poteri forti, in preda a deliri sentimentali, con un’intelligenza completamente obnubilata. Un Sud d’Italia, e del mondo, sempre più disprezzato per la superiorità industriale e finanziaria, non certo umana, del Nord. Vietate le memorie religiose, niente razze, o sessi, solo transessuali o travestiti, con la severa punizione di chi protesti contro l’abuso. Vietata la romanità, vietati Platone e Dante. È il “magnifico nuovo mondo” di Huxley, già preconizzato da Platone come preludio a qualcosa di peggiore.
Un mondo nel quale non ci saranno più nazioni, o religioni, o persone, ma solamente individui separati, gravitanti sulla materia prima dell’essere indeterminato e dell’assoluta dissoluzione, vale a dire dell’unità framassonica degli uomini, entità del tutto o quasi prive d’ogni intelligenza, schiavi del tutto proni ai voleri di chi pretenderà di dominarli. Vale dire, tutti quanti al servizio dei seguaci di Giuda, e dei loro liberti anglosassoni. Ci siamo assai vicini, anche se non sappiamo se arriveremo mai ad un simile esito nefasto. Quello che conta, è che vi sia un “resto d’Iddio”, sia magnificato ed esaltato, una Guida divina in attesa di manifestarsi, ed i suoi fedeli seguaci nel mondo. Alla fine l’empietà e la prevaricazione si dissolveranno come neve al sole, dando luogo al manifestarsi finale dell’Essere.
Abbiamo dunque descritto alcune di quelle che sono le nostre miserie, magagne tali da indurci, come già recitava Dante, a dovere più piangere che dire oltre. La situazione è oramai talmente degradata ed umanamente irrimediabile, che solamente un intervento provvidenziale per tramite divino diretto, quell’intervento da sempre auspicato e preconizzato dai sapienti ispirati di ogni religione, potrà porre fine a tutti questi orrori, dando forza e efficacia ulteriori a quei lodevoli propugnacoli d’opposizione e di lotta, ai quali abbiamo già accennato prima, e dei quali sarebbe lungo in questa sede dire oltre. Sarà allora che verrà il Salvatore del mondo e dell’umanità. Ebbene che Iddio Altissimo, che Egli sia magnificato ed esaltato, voglia affrettarci senza nessun indugio la gioia della sua manifestazione trionfante e gloriosa.