Teoria della relatività universale
Analisi dell’errore ontologico che trasforma i concetti in realtà, confutando la reificazione del pensiero e l’assoggettamento dell’essere al linguaggio.
16 dicembre 2025, di Mostafa Milani Amin
La gioia e la sofferenza derivano dalle categorie concettuali e non appartengono alla Realtà in sé. L’ontologia tradizionale nasce dall’uso dei nomi per indicare gli enti e dall’assoggettamento dell’essere al linguaggio.
Nomina rerum non res. Questo testo non propone una teoria, non fonda una scuola né indica una via: è un’operazione di riduzione ontologica per sottrazione. Ogni volta che un ente, un valore o un’esperienza si mostrano dipendere da una descrizione, essi vengono rimossi dall’ambito del reale e ricondotti a quello del concettuale. Ciò che dipende da un atto di distinzione non possiede realtà indipendente.
Il riferimento alla dimensione “quantica” non ha carattere metaforico. Esprime un principio rigoroso: ciò che dipende dall’atto di misura non esiste come ente autonomo. Dove c’è dipendenza dall’osservazione, dal linguaggio o dal riconoscimento, c’è fenomeno; dove non vi è alcuna dipendenza, vi è Realtà. La Realtà non è ciò che appare, ma ciò che non necessita di apparire.
Per realtà si intende ciò che non dipende da osservazione, soggetto, linguaggio, misura o valore. Per concetto si intende ciò che esiste esclusivamente come risultato di una distinzione operata. Gioia e sofferenza rientrano in questa seconda categoria: non sono enti, ma esiti interpretativi di una misura affettiva. Ogni filosofia che confonde questi livelli attribuendo realtà a ciò che nasce da una descrizione produce mitologia concettuale.
La tesi centrale è semplice: la sofferenza è la fede nell’esistenza reale della sofferenza; la gioia è la fede nell’esistenza reale della gioia. La fede, qui, non è religiosa, ma ontologica. Consiste nell’attribuire realtà a ciò che non la possiede. Senza questa attribuzione, gioia e sofferenza non si trasformano in altro: cessano semplicemente di essere ciò che pretendono di essere.
Un ente reale deve sussistere indipendentemente dall’atto che lo rileva. Gioia e sofferenza non sussistono senza riconoscimento, confronto, memoria e linguaggio. Il medesimo dato, al mutare del contesto interpretativo, viene qualificato come gioia o come sofferenza. Ne segue che esse non precedono la misura, ma ne risultano. Sono stati collassati da un atto concettuale.
La storia della filosofia mostra con chiarezza questo errore ricorrente. Platone attribuisce realtà alle Idee, promuovendo l’astrazione a ente e confondendo la stabilità concettuale con l’indipendenza ontologica. Aristotele introduce la sostanza per risolvere un problema di predicazione, trasformando un’esigenza grammaticale in fondamento dell’essere. Cartesio deduce un soggetto reale da un atto di pensiero, convertendo un’operazione in una sostanza. Kant riconosce correttamente il ruolo del concetto, ma poi reifica il limite istituendo il noumeno come oggetto negativo. Nietzsche smaschera i valori come interpretazioni, ma conserva l’affettività come orizzonte ultimo, lasciando intatta la scena metafisica sotto forma estetica. Le filosofie della consolazione, antiche e moderne, assumono la sofferenza come reale e tentano di gestirla, senza metterne in questione lo statuto ontologico.
Una superstizione è un concetto che si presenta come fatto. Gioia e sofferenza sono superstizioni perfette perché vengono immediatamente credute, non richiedono giustificazione e si auto-legittimano attraverso l’intensità. L’intensità, tuttavia, non prova la realtà di ciò che viene vissuto, ma solo la forza della credenza che lo sostiene.
Gioia e sofferenza sono ontologicamente identiche. Dipendono dallo stesso atto di misura, esistono solo per opposizione reciproca e scompaiono simultaneamente quando la credenza che le fonda viene sospesa. La loro differenza è narrativa; la loro realtà è nulla.
Quando ogni reificazione concettuale viene rimossa, non resta il nulla. Resta ciò che non è mai entrato nel gioco delle descrizioni. La Realtà non migliora, non peggiora, non salva e non condanna. Non consola l’umanità e, proprio per questo, non la inganna.
L’intera storia della filosofia appare così, in larga parte, come storia della reificazione dei concetti. Gioia, sofferenza, bene, male, soggetto, senso: invarianti presunte, trattate come enti, quando sono effetti di un sistema di riferimento concettuale. Come la fisica classica assolutizzava spazio e tempo prima che la relatività ne mostrasse la dipendenza dall’osservatore, così la metafisica ha assolutizzato categorie nate dalla misura linguistica e interpretativa. Il pensiero stesso non è mai accesso diretto alla Realtà, ma passaggio da una relatività a un’altra: non elimina il frame, lo rende più preciso. Questo scritto non propone nuovi assoluti, né sostituisce vecchi idoli con altri più sofisticati; compie un solo gesto, storicamente necessario, estendendo al dominio del pensiero l’operazione già compiuta nella scienza. Ricondurre al relativo ciò che dipende da un sistema di riferimento, e avvicinare la relatività concettuale a ciò che non dipende da alcuna misura. Ciò che resta non appartiene alla storia umana, perché non è un’idea, non è un concetto, non è un nome. È la Realtà stessa, che non necessita di essere pensata per essere.
Mostafa Milani Amin